La proposta del segretario del Partito Democratico sta facendo il giro dei media. Enrico Letta ha pubblicamente dichiarato di voler costituire una dote per i giovani di diciotto anni e che questa offerta, o disegno economico, sia funzionale a due principi: il primo sarebbe quello di sostenere i giovani, a cui – secondo le sue parole – nessuno pensa; il secondo risponderebbe al principio di una più equa distribuzione, finanziata mediante la tassa di successione per i patrimoni che sforano i cinque milioni di euro.

Il terzo principio, non detto, è che il PD attira poche simpatie e, soprattutto, scarso consenso elettorale tra i più giovani, mentre mantiene un certo appeal nelle generazioni più avanti con l’età che non rientrano nelle categorie dei millennium, generazione z, next generation e altre sigle dell’avvenire.

La propaganda deve quindi attecchire su quella fascia di età, la più debole dal punto di vista elettorale. L’iniziativa del segretario, che probabilmente si affievolirà dopo l’invito a parlarne nei più rinomati salotti televisivi, è stata immediatamente sfruttata dai partiti di destra che, come spesso accade, sbandierano slogan funzionali alla loro contropropaganda: il PD, partito delle tasse, ex partito di bibbiano, vuole mettere le mani nelle tasche degli italiani, et cetera et cetera. Il presidente del Consiglio, da parte sua, cordialmente e pacatamente, declina la proposta, lasciando decantare e rimandando il tutto a indefinita data da destinarsi.

Non ci sono dubbi che sia giusto tassare la rendita e sostenere i giovani, ma un aspetto probabilmente sfuggito nel dibattito politico è quello della concezione educativa sottesa alla proposta di Letta. In sostanza, parte di questa dote dovrebbe essere utilizzata per scopi di formazione. Bene, ma quale visione ne emerge? L’ideologia di fondo rivela una posizione politica dell’educazione che, come direbbe Ettore Gelpi, “progressivamente si dimentica della sua storia fatta di lotte, resistenze, creatività e diventa uno strumento usato solo per lo sviluppo personale dell’individuo e nella logica del mercato”.

Certo, non è l’epoca delle 150 ore, ma la qualità della formazione non può dipendere solo dalla disponibilità economica, in una sorta di credito individuale, che potrebbe assomigliare a un bonus di acquisizione competenze.

Dovrebbe, piuttosto, essere il risultato della visione strategica di una società fondata sui presupposti dell’Articolo 34 della Costituzione che garantisce il diritto all’istruzione a tutti, anche se privi di mezzi, il che non si ottiene mediante una sporadica dote, ma come recita lo stesso articolo “con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze che devono essere attribuite per concorso.”

Qui emerge una formazione che si basa sul merito e non sull’acquisto, guadagno o spendibilità. Accerchiati dal sistema mercantilista, molti giovani sono demotivati non tanto dalle scarse possibilità economiche individuali, ma dalla mancanza di un progetto di vita collettivo.

Ecco perché varrebbe la pena investire nella motivazione allo studio, mediante concorsi che incentivano l’editoria giovanile, progetti – anche cooperativi – nel campo del cinema, della cultura, del teatro, della musica particolarmente colpite dalla pandemia; borse di studio all’estero, tirocini retribuiti attraverso fondi pubblici, eludendo così la sensazione deprimente del lavoro a costo zero, imprenditoria sociale: il tutto avrebbe senso in un progetto integrato di formazione permanente.

Sono semplicemente idee che andrebbero discusse con le parti sociali e, soprattutto, con gli studenti stessi: costruite insieme a loro, non per loro. Del resto, il dialogo dovrebbe essere la vocazione di una cultura di sinistra. Altrimenti, caro segretario, promesse di doti e bonus di ‘renziana memoria’ potrebbero apparire come comprensibili tentativi di ambire al consenso giovanile. Specchi per le allodole, fugaci, inefficaci come beni di consumo dalla cui logica dobbiamo necessariamente uscire.