Nell’autunno del 2008 l’artista genovese Luca Vitone, che da tempo vive e lavora a Berlino, per tre mesi risiede all’American Academy, ospite della sua magnifica sede romana in cima al Gianicolo. È l’occasione – si dice – per finalmente realizzare un progetto di collaborazione che da tempo accarezza: con un artista più anziano di lui di vent’anni, Emilio Prini, che è ligure ma a Roma da tempo risiede. A più riprese gli è parso che Prini gli manifestasse un’imprevista simpatia. Forse riconoscendo, nel più giovane collega, la sua stessa attitudine all’elusione, se non alla sottrazione, di sé e della propria opera. Per esempio invitato alla Biennale di Venezia, tre anni fa, con un progetto sull’Eternit, Vitone finì per esporre una «scultura olfattiva» che, proprio per la sua invisibilità, rinviava alla minaccia silenziosa rappresentata da quel materiale. Per parte sua Prini, ha scritto una volta Germano Celant, aveva anticipato quella che tanti anni dopo si sarebbe battezzata «arte relazionale»: perché i suoi lavori, che chiama oggetti a scomparsa, da molto presto materialmente si sottraggono allo sguardo del pubblico. Restano così – in luogo delle opere – le reazioni alla loro sparizione. Per esempio Prini era solito annunciare con un telegramma la sua partecipazione a una mostra; per poi brillare, appunto, per la propria assenza. Così manifestando la sua insofferenza «per l’aspetto pubblico», nonché economico s’intende, «del lavoro». Così fece alla famosa mostra dell’Arte Povera, ad Amalfi, nell’ottobre del ’68 (alla cui inaugurazione si presentò, ma solo per giocare a pallone all’Arsenale); o nel catalogo dell’altra mostra del movimento, a Monaco nel ’71: dove le pagine a lui riservate restarono bianche. Si capisce come un simile comportamento potesse (e possa tuttora) risultare urticante, per il sistema dell’arte; di contro, con i compagni di strada, Prini spesso intratteneva rapporti di «simpatia» (una delle sue parole-chiave – ha scritto Daniela Lancioni ricordandolo su queste pagine), ossia di complicità creativa. Nel 2011, per esempio, collaborerà con un artista ancora più giovane, Nicola Pecoraro, che era intervenuto modificando il catalogo dell’unica personale tenuta da Prini in un museo pubblico (Fermi in Dogana, a Strasburgo nel ’95).
Com’era prevedibile, proprio perché tanto vagheggiato, il tentativo di Vitone viene sistematicamente eluso da Prini. Nel corso di quei tre mesi, quasi ogni giorno il primo telefona al secondo. Gli rispondono di volta in volta voci femminili, o maschili, sempre assai cortesi (e che anzi a un certo punto entrano, con lui, in una certa surreale confidenza), ma che ogni volta rinviano l’appuntamento. «Il signor Emilio sta bene, però sta riposando… se può chiamare nel pomeriggio»… «adesso non può… dice che ti chiama lui». Il postulante, kafkianamente, resta alla porta; molte volte può registrare solo il segnale di libero del telefono. Così Vitone concepisce un’opera in assenza, omaggio a Prini squisitamente priniano: un libro d’artista fatto di pagine bianche, fatta eccezione per quelle brevi telefonate a vuoto, per la data del giorno (ritagliata dalla testata dei giornali), e per la trascrizione dei menù di volta in volta offerti dagli chef dell’Academy.
La sorte ha voluto che il libro, dopo varie peripezie, sia stato pubblicato solo quest’anno, per iniziativa di Giuseppe Garrera; poco tempo prima, dunque, che – il 2 settembre scorso – l’assenza di Prini si sia fatta, per il più triste dei motivi, definitiva. Così che Effemeride Prini (Quodlibet, pp. 104 a colori, euro18,00) ha finito per essere un libro-cenotafio: monumento sepolcrale vuoto all’artista che col vuoto più di ogni altro ha lavorato. L’effemeride non è che un diario: che, come il Libro mio del Pontormo – archetipo del journal d’artiste – si limita a registrare, nonché il nulla, i nonnulla del metabolismo quotidiano. Così si chiamavano pure, etimologicamente, appunto i quotidiani tra la fine del Settecento e i primi del secolo seguente, come le «Efemeridi Letterarie» fondate a Roma nel 1772. In una nota dello Zibaldone del 1827, Leopardi – che era un loro lettore – usa un’immagine simile per trattare il tema dell’appunto effimera gloria artistica (lo stesso dell’operetta morale dedicata a un quasi omonimo di Prini, il Parini…) nel tempo del consumo quotidiano: «la sorte dei libri, oggi, è come quella degl’insetti chiamati efimeri: alcune specie vivono poche ore. Noi siamo veramente oggidì passeggeri e pellegrini sulla terra: veramente caduchi: esseri di un giorno: la mattina in fiore, la sera appassiti, o secchi: soggetti anche a sopravvivere alla propria fama, e più longevi che la memoria di noi». Così, dalle ceneri di un libro impossibile, scaturisce una riflessione quanto mai pungente sulla presenza, sull’assenza, sulla natura ironicamente elusiva – oggi più che mai – del tempo e delle opere.