Una decisione entro 48 ore e un’eventuale azione entro 10 giorni. È questa l’ipotesi allo studio nelle cancellerie occidentali, che attendono il risultato dell’indagine degli esperti Onu sul terreno, iniziata ieri sotto i tiri degli sniper. Con molto scetticismo preventivo: il regime siriano ha dato il via libera all’inchiesta su consiglio russo, ma le prove potrebbero già essere state cancellate dal tempo trascorso dall’attacco chimico del 21 agosto. François Hollande ha affermato ieri che una decisione verrà presa «entro la prossima settimana». Il premier britannico David Cameron, che domenica ha avuto una lunga telefonata con Obama, è tornato in anticipo dalle vacanze per presiedere a Londra un consiglio nazionale di sicurezza. Il Labour ha chiesto un dibattito in Parlamento. Il ministro degli esteri, William Hague, ha affermato ieri che di fronte all’impossibilità di un voto favorevole all’intervento al consiglio di sicurezza dell’Onu, a causa dell’opposizione di Russia e Cina, ci potrebbe essere comunque un intervento perché «in caso contrario, sarebbe impossibile rispondere a un tale scandalo», rappresentato dall’uso di armi chimiche. Obama è ancora prudente, teme di ripetere il caso dell’Iraq nel 2003, mentre il senatore John McCain spinge per una «vera» reazione Usa che non ha bisogno di «conferma» da parte dell’Onu. Per Chuck Hagel, segretario di stato Usa, l’intervento potrà essere deciso solo «di concerto» con la comunità internazionale e «nel quadro di giustificazioni legali». Ma l’idea di una coalizione internazionale senza passare per il via libera dell’Onu fa passi avanti. La legalità sarebbe trovata nel riferimento alla convenzione internazionale che ha messo al bando le armi chimiche nel ’93, in reazione al massacro dell’88 a Halabja nel Kurdistan iracheno (già nel ’25 l’yprite era stata proibita in seguito all’uso che ne era stato fatto durante la prima guerra mondiale). La Turchia si è detta pronta a partecipare alla coalizione. La Francia, che nei giorni scorsi sembrava molto determinata, ora frena. Laurent Fabius ha parlato di «risposta proporzionata, misurata». Per Fabius «tutte le opzioni sono aperte», l’unica «di cui non tengo è di non fare nulla». Hollande, che questa settimana dovrà fare un discorso proprio sulla politica estera, un anno fa aveva affermato che l’uso di armi chimiche è una «causa legittima» per un intervento diretto. Per il primo ministro Jean-Marc Ayrault, «la comunità internazionale non puo’ lasciar passare questo crimine contro l’umanità». La Germania è sulla stessa lunghezza d’onda: Berlino è pronta ad approvare una eventuale «azione», per il ministro degli esteri Guido Westerwelle, se l’utilizzazione di armi chimiche da parte del regime di Assad si conferma, ci saranno «conseguenze» perché si tratta di un «crimine contro la civiltà». L’Unione europea resta per il momento estremamente prudente. Ufficialmente, c’è solo un no comment, nell’attesa dei «risultati dell’ispezione dell’Onu». L’alta rappresentante per la politica estera ha smentito William Hague e l’opzione di agire senza il via libera dell’Onu: in visita a Tallin (Estonia) ha ricordato che il sostegno del consiglio di sicurezza è di «importanza capitale». Per Ashton c’è ancora spazio per trovare una “soluzione politica”. Emma Bonino, che giovedì sarà a Parigi, è sulla stessa posizione: «Prima di attaccare pensiamo mille volte – ha affermato – le ripercussioni potrebbero essere drammatiche». Una soluzione politica sarebbe negoziare un esilio per Assad o un conferimento del dittatore di fronte alla Corte Penale Internazionale. Ma prima bisogna stabilire chi ha sparato le armi chimiche. La Russia accusa i ribelli. Ieri, il ministro degli esteri, Serguei Lavrov, ha ancora parlato di «falsificazione» delle prove, accusando l’occidente di «isteria». Mosca ha messo in guardia l’occidente di non commettere un «tragico errore» con un intervento che avrà «conseguenze estremamente gravi» e sarà una «grossolana violazione del diritto internazionale». Lavrov ha però affermato che «Mosca non entrerà in guerra». La Cina ha insistito su una «soluzione politica» invitando ad evitare ogni ingerenza. Ad Amman c’è stata una riunione, prevista da tempo, dei vertici militari di dieci paesi, che potrebbero prefigurare la prossima «coalizione»: Usa, Gran Bretagna, Francia, Canada, Italia, Germania, Giordania, Arabia saudita, Qatar, Turchia. Nella zona Usa e Gran Bretagna hanno già dispiegato una forza navale considerevole, che potrebbe agire immediatamente, con bombardamenti mirati contro centri militari del regime siriano. La «legalità» sarebbe giustificata come lo fu per l’intervento in Kosovo nel ’99 e le modalità di un intervento rapido sarebbe simili a quelle in Libia nel 2011, con missili, senza intervento a terra ufficiale, con sostegno all’opposizione, anche se l’ipotesi è di un’azione più breve nel tempo di quella contro Gheddafi.