Tanna, opera prima australiana dei documentaristi Bentley Dean e Martin Butler, nomination agli Oscar per il Miglior Film Straniero e vincitore della Settimana della Critica di Venezia 2015, è uno di quei film che punta sulla «verità» della storia (un didascalia all’inizio lo mette subito in chiaro) e su un contesto dichiaratamente eccentrico al nostro sguardo.
La vicenda ha luogo su un’isola, Tanna, dall’aspetto incantato col vulcano e il suo spirito a dettare legge, e ha per protagoniste due tribù: Yakel e Imedin. Della prima fanno parte Wawa e Dain, innamorati e intenzionati a vivere insieme per il resto della loro vita; nella seconda è incluso Kapan Cook, il promesso sposo di Wawa. Se il matrimonio combinato dovesse fallire, la fragile pace appena sancita tra i due villaggi annegherebbe definitivamente nel sangue.

Il dubbio che assale, vedendo un film nel quale lo stile documentario e la messa in scena si mescolano continuamente, è se la vicenda rappresentata, di fatto una storia d’amore ostacolata da interessi superiori, sia universale al punto da poterci identificare in quanto abitanti del pianeta Terra, o se per caso le vite di persone irriducibili ai nostri schemi siano state incluse a forza in un racconto costruito per il nostro gusto.
In altre parole, Omero, Shakespeare e Manzoni sono i rappresentanti dell’esistente a qualsiasi latitudine o certa antropologia ha il sapore indelebile del colonialismo?