Nell’intervista all’Espresso, Matteo Renzi critica il presidente della camera Laura Boldrini, che è uscita «dal suo perimetro di intervento istituzionale con valutazioni di merito se fare o no un decreto che non spettano al presidente di un ramo del parlamento». La sentenza è dura ma non fondata, alla luce della storia delle istituzioni.

Nel luglio del 1978, il presidente Pietro Ingrao denunciò la scorciatoia della decretazione d’urgenza come risposta illusoria all’esigenza di decisione rapida, che avrebbe comportato semmai una più efficace programmazione dei lavori.

Un argine alla decretazione sarà un chiodo fisso nel corso delle presidenze di Nilde Iotti. Nel luglio del 1981, durante la cerimonia del Ventaglio, pronunciò parole dure contro l’abuso dei decreti. Nel dicembre dell’1981, uscì di nuovo «dal suo perimetro di intervento» e non si limitò ad un attacco alla decretazione ma invocò «una strada nuova e diversa» nei processi legislativi.

Nel settembre 1984 Iotti demolì l’uso smodato della decretazione riscontrando nella prassi dei governi delle «delicate questioni di correttezza costituzionale». Per questo sfidò, esprimendo una «vivissima preoccupazione», Craxi per il varo di una raffica di decreti, giunta peraltro nel giorno stesso delle sue dimissioni. Un solerte commentatore dell’Avanti reagì con le stesse parole adoperate ora da Renzi contro Boldrini: «Non tocca a lei stabilire il carattere di urgenza dei provvedimenti adottati dal governo».

E però Craxi, che in 36 mesi aveva varato 185 decreti e altri 63 li emanò nel corso della seconda esperienza di governo, sorprese gli osservatori. E il 19 marzo del 1987 rispose riconoscendo le ragioni istituzionali della Iotti. Si impegnò anche, con una promessa del marinaio, a richiamare il governo ad «una scrupolosa verifica dei presupposti costituzionali dei decreti».

Nel febbraio del 1988 Iotti sollevò una ulteriore degenerazione, la richiesta continua del voto di fiducia, una prassi ormai invalsa e neppure più censurata dai custodi della Costituzione. Sul finire della prima repubblica, nel gennaio del 1993, toccò a Giorgio Napolitano attaccare i troppi e non giustificati decreti in una fase di emergenza guidata dal tecnico Ciampi.

Quando, con i comitati Prodi, anche lo statista fiorentino in erba cominciò a fare politica, la querelle della decretazione non era certo spenta. Nella seconda repubblica ha avuto anzi una proliferazione incontrastata quale fonte normativa privilegiata. Il 26 marzo del 1998, al governo sedeva l’Ulivo, il presidente della camera Luciano Violante denunciò l’uso abnorme della decretazione e della delega. E investì anche il Quirinale della delicata faccenda di un parlamento ridotto a «contenitore di decreti».

Il suo grido, per il ripristino della procedura ordinaria e per il ritorno al sistema delle fonti, non ebbe successo. Una delle punte polemiche più accese del conflitto tra palazzo Chigi e Montecitorio si registrò nel 2007 con la disputa tra Fausto Bertinotti e Prodi. Dopo 11 giorni di dibattito in aula sulle liberalizzazioni, ci fu il ricorso al decreto per accorciare i tempi e interrompere i lunghi riti. Lo scontro tra le ragioni della discussione e quelle della decisione fu aspro e intervenne anche il Quirinale.

Si dirà: ma sono tutti presidenti comunisti, che rinviano cioè alla nostalgica dottrina della centralità del parlamento.

Nel settembre del 1994, a scrivere una formale lettera di protesta, fu però la leghista Irene Pivetti, che non esitò a sfidare Berlusconi. Al governo da appena 5 mesi, il Cavaliere già aveva scoperto il fascino della decretazione (219 decreti, in parte eredità del governo precedente).

Nel giugno del 1996 anche Oscar Luigi Scalfaro si scagliò contro «l’usurpazione» del governo Prodi (decreti reiterati). E nell’ottobre del 2002 lo stesso Pier Ferdinando Casini intervenne per stigmatizzare i decreti e l’ampiezza e genericità delle deleghe rivendicate dall’esecutivo Berlusconi.

I conflitti tra governo e presidenti delle assemblee sono dunque abituali e anche Gianfranco Fini nel 2009 censurò l’abuso del governo del Cavaliere che per controllare la maggioranza inquieta aveva posto la fiducia al decreto anticrisi.

Il fatto è che la legislazione è sempre più ridotta ai soli decreti imposti dall’esecutivo, sebbene risultino senza i connotati della necessità e urgenza. Con i maxiemendamenti alla finanziaria (che nel 2006 videro assumere forme farsesche), con il contingentamento dei tempi, con la continua richiesta della fiducia, l’aula è vittima sacrificale di cenni di decisionismo che avanzano a colpi di ghigliottine, canguri.

Non è stato Renzi a creare queste degenerazioni nell’iter legislativo, che Boldrini segnala in difesa dell’autonomia funzionale del parlamento. Ma forse lui pensa che la Camera sia il consiglio di Palazzo Vecchio, solo un po’ più grande, che il sindaco d’Italia può, se lo crede, emarginare.