Puntiamo il contatore d’anni della macchina del tempo di «ritorno al futuro» su un qualsiasi periodo italiano nella prima metà degli anni Settanta. Ad esempio (scelta casuale, ma riferita a chi stila queste note), la Genova del 1973, quartiere del Carmine. Dove c’era il prete ribelle Don Gallo. C’è un gruppo di ragazzi e ragazze con i capelli lunghi, diverse chitarre acustiche, qualche percussione, in piazza. L’intervistatore dal futuro, opportunamente travestito in panni d’epoca si avvicina, e chiede quale sia la loro musica preferita. Uno ha tra le mani la rivista Gong, un altro Re Nudo. La risposta sarebbe inequivocabile: la musica pop. Quando si vive in un’epoca fortemente caratterizzata nelle estetiche, nelle scelte politiche ed esistenziali non esistono ancora le esatte «parole per dirlo». Strano ma vero. Sicuramente quel gruppo di ragazzi, se aveste nominato la definizione «progressive rock» vi avrebbe guardato come il marziano del futuro che in effetti siete. Nessuno negli anni Settanta italiani chiamava il progressive rock così. E se aveste mostrato loro una rivista di oggi, con quell’aggettivo nel titolo (magari alternato a qualcosa che avesse a che fare con la «classicità del rock», anch’essa inesistente, nei Settanta) ) si sarebbe avvicinato a una cabina con telefono a gettone per avvisare chi di dovere che c’era qualcuno strafatto che straparlava. Quanto chiamiamo oggi «classico progressive rock italiano» (e non solo da queste parti) allora era «musica pop». C’era del vero, anche se il senso delle parole s’è rovesciato, oggi, che per «musica pop» intendiamo il bordo più scaltro, leggero, commerciale e orecchiabile delle musiche di consumo.
Allora era esattamente il contrario: il «rock», in quanto tale, era quello duro e massiccio dei Deep Purple, dei Grand Funk e dei Black Sabbath. La musica pop, invece, quel gruppo di ragazzi l’avrebbe identificato in un oceano fremente di possibilità musicali che schiudevano letteralmente nuovi mondi, aprivano quelle «porte della percezione» che tutti citavano senza conoscerne granché l’ascendenza.

RICERCA
Musica pop, dunque: connotabile, grossomodo, come ricerca musicale, perizia strumentale, inserimento di tempi dispari e composti a far saltare il lucchetto alla gabbia cogente del quattro quarti, richiami alle note classiche, derive jazz, impianto di testi cantati (in italiano, spesso in simil inglese all’amatriciana) con un clamoroso cortocircuito tra favolismo estremo da parabola sapienziale, e brucianti inneschi a far deflagrare una realtà politica rifiutata quasi in blocco.
Il progressive rock italiano è stato una rete a strascico di musica, giornali, slogan, eventi commerciali e/o pratiche diffuse di riappropriazione degli spazi in cui suonare, evasione in un mondo altro e immersione in questo, per mettere granelli di sabbia nell’ingranaggio che t’impediva di «riprendere intera la vita, la terra, la luna e l’abbondanza», per usare le parole di Claudio Lolli. Ha occupato in maniera fremente e memorabile una dozzina d’anni, per poi riverberare i propri aloni diventati leggendari e a loro volta mitografici nel successivo quarantennio, tant’è che oggi la Penisola è piena di gente che si ritiene legittima erede di quella stagione azzannata poi alla gola dal punk rock e dalla new wave, e non si accorge di farne la copia conforme e normalizzata, per quanto le intenzioni possano essere nobili e la perizia strumentale incrementata a dismisura, e le tecniche di incisione e gli ausili elettronici diventati l’inveramento quotidiano di quanto allora sarebbe apparso fantascientifico. Qualcuno degli originali è attivo ancora oggi, e qua è tutto un altro discorso: si rischia contemporaneamente la mesta conta dei persi per strada, e la bellezza appassionata di chi sa ancora piazzare qualche bel colpo gobbo a sorpresa.

FUORI I NOMI
Una dozzina d’anni s’è detto, in cui si consuma e brucia tutta la prima stagione del «prog rock» italico. Oggi scavato e indagato con acribia archivistica fino ai deuteragonisti più minori dei minori. C’è sempre qualche pepita, vera o supposta che sia, che potrebbe dormire nell’esaurito filone aureo della miniera abbandonata e riscoperta. Il prog rock italiano maturò nel grande brodo di coltura che allora si definiva «beat». Fu un passaggio inizialmente quasi non avvertito, un po’ come successe in Inghilterra con gruppi come i Procol Harum e i Moody Blues, che a loro volta elaborarono e fecero quasi esplodere le intuizioni già folgoranti della psichedelia, della ricerca strumentale, del gioco combinatorio e colorato dei Beatles dopo il ’65.
In Italia il tutto si palesò con Le Stelle di Mario Schifano, con i primi passi timidi e melodici delle Orme, con i genovesi New Trolls a dilatare le canzoni in forma di suite e i Gleemen del leggendario Bambi Fossati, il Jimi Hendrix italiano, che rimarcarono l’ingresso in una nuova stagione cambiando anche il nome: erano nati i Garybaldi di Nuda, con la copertina disegnata da Guido Crepax e Astrolabio, musica potente e immaginifica. Era nato anche il Balletto di Bronzo, hard rock «progressivo» oscuro attraversato da linee di faglia tastieristiche mobili e inaspettate. Il 1972 è il momento in cui sboccia con impetuosa vitalità il grande prog italiano, a propria volta nutrito dal frequente passaggio in Italia di gruppi che in terra d’Albione raccoglievano le briciole del successo, e qui da noi vennero immediatamente accolti per il loro valore: Genesis, Gentle Giant, Colosseum, Soft Machine, Van Der Graaf Generator, e via citando.
L’inizio degli anni Settanta vede la pubblicazione di dischi capolavoro della Premiata Forneria Marconi nata dalle ceneri dei Quelli, del Banco del Mutuo Soccorso, degli Osanna, per indicare tre coordinate rispettivamente poste a Nord, al Centro e al Sud. Spuntano fuori i radicalissimi Area di Demetrio Stratos, la punta più intransigente e politicizzata del prog con dichiarata volontà d’avanguardia. La prima linea del prog è rinforzata da corpose retrovie sonore, i nomi sono quelli, buffi e ridondanti, che marcavano lo stacco dal beat: Raccomandata con Ricevuta di Ritorno, Reale Accademia di Musica, Paese dei Balocchi, Pierrot Lunaire.

FIERA DELLE POSSIBILITÀ
Il prog italiano è una fiera delle possibilità, non un resoconto asfittico di citazionismo: c’è spazio per il jazz rock in linea con Miles Davis e i Nucleus di Perigeo, Arti e Mestieri, Baricentro, Esagono, per le avventure proto-etniche che anticipano la world music e le note mediterranee riscoperte (Aktuala, Telaio Magnetico, Musica Nova), per chi riprende la vocalità estrema anglosassone (Alan Sorrenti, Juri Camisasca), per chi guarda con interesse alla West Coast acida e dolcissima (Saint Just, Circus 2000, Donatella Bardi). Le radio, con programmi come Supersonic e Popoff rilanciano il tutto, i concerti ufficiali si alternano a quelli autogestiti e movimentisti. Ma a sentire il prog italiano che non sa di chiamarsi così ci va tanta, tanta gente. C’è una data simbolo, che segna l’inizio della fine, o meglio, l’ingresso in un passato prossimo che è quasi solo revival: il 14 giugno 1979.
A Milano si tiene il grande concerto del prog rock italiano che avrebbe dovuto raccogliere fondi per le cure di Demetrio Stratos degli Area, ammalatosi improvvisamente. Diventerà invece un mesto tributo alla memoria del più grande vocalist sperimentale italiano, e forse europeo. Brucia come se qualcuno avesse gettato benzina sul fuoco l’ultima fiammata del prog. Ma poi inizia, per dirla con Mahler, il culto delle ceneri gelide e il citazionismo letterale neo prog. Non sempre e non comunque. E qualche bella fuga in avanti arriva proprio dalla prima generazione prog. Quella del Banco del Mutuo Soccorso.