«Un ventennio bloccato da berlusconismo e antiberlusconismo», Renzi li mette sullo stesso piano. E tocca al petto quella parte dell’opposizione che guarda con nostalgia agli anni in cui, alla fine, in un modo o nell’altro Berlusconi lo si fermava. Renzi invece no, pare inarrestabile. Lo racconta così tutta la stampa affiatata, e al Cavaliere mancava. Ma dove va? Va verso l’uscita dal ventennio, all’indietro.
A Pesaro fa un discorso emozionale. Dice che «dobbiamo credere in noi stessi», si rifiuta di citare per nome il suo avversario (è Salvini), fa scorrere le immagini delle piazze e dei borghi d’Italia. Pare il Veltroni del Lingotto, quello del «non parlo da uomo di parte ma da italiano». A Rimini dice che abbassare le tasse, cancellare l’Imu anche sulle case di lusso, «è un fatto di equità». Poetica berlusconiana, prosa di Margaret Thatcher: «Il compito dello stato è lasciare le persone libere di fare», copia. Il salto all’indietro è un salto doppio.

«Il compito del governo è costruire la cornice e lasciare il talento umano libero di svilupparsi», aveva detto la dama di ferro dell’ultraliberismo. Renzi dal Meeting di Comunione e Liberazione aggiunge la promessa di «liberare, semplificare, ridurre al minimo tutto ciò che blocca chi ha voglia di provarci». Niente che Berlusconi stesso non abbia già detto, dal «Meno tasse per tutti» al «Padroni in casa propria». Eppure, secondo la ricostruzione renziana, tutta questa libertà l’Italia l’ha già avuta «fino agli anni Novanta». Fino al ventennio berlusconiano, quello in cui si sono costruite le carriere dei suoi avversari interni nel partito. «La seconda Repubblica è stata una rissa permanente, berlusconismo e anti berlusconismo hanno fatto mettere il tasto pausa alla politica». Non è estraneo all’analisi il fatto che con Berlusconi lui non abbi fatto risse, ma accordi dalla Costituzione alla Rai. E che un nuovo patto appaia indispensabile per completare la riforma del bicameralismo, per la quale la maggioranza non ha i voti al senato.

L’alternativa, il confronto con le richieste dell’opposizione e della minoranza Pd, non lo sfiora. Torna utilissima la buffonata dei 510mila emendamenti leghisti. «Una risata li seppellirà, noi resisteremo un minuto di più di quelli che fanno gli emendamenti». A fianco a lui, tra i resistenti, non basterà Verdini, né basterà forzare ancora e saltare il passaggio in commissione. Serve un aiuto berlusconiano. La retorica del presidente del Consiglio è ormai saldamente tarata sulla campagna referendaria per il Sì. «Dicono che se non c’è elezione diretta è a rischio la democrazia. Non è che devi votare tante volte perché ci sia più democrazia: quello è il Telegatto». Anche con le battute si resta dalle parti di Canale 5, ma è un gioco bugiardo: l’elezione diretta dei senatori non sarebbe un turno di votazioni in più, casomai può esserlo l’infernale meccanismo dell’elezione di secondo grado tra consiglieri regionali. La propaganda chiama l’applauso, la platea ciellina non lo nega quando Renzi aggiunge: «Moltiplicando le poltrone si fanno contenti i politici, non gli elettori». Nessuno ricorda che (se è questo il punto) le controproposte alla riforma di Renzi prevedevano una riduzione maggiore di parlamentari, tra camera e senato.
Qualcuno forse ricorda un Renzi pre palazzo Chigi altrettanto demagogico: «Non vado al governo senza passare per le elezioni». Invece lo ha fatto, ed è a Rimini a spiegare che «non mi sono candidato al parlamento perché il sistema non prevede la corrispondenza tra chi si candida e chi guida il paese». Anche la logica fa i salti mortali, il passaggio serve a parlar bene dell’Italicum: «La legge elettorale è il primo tassello per riuscire finalmente a governare e non difendersi dagli assalti della minoranza o dell’opposizione. È una rivoluzione». Se qualcuno si era illuso che il presidente del Consiglio fosse disponibile a corregge la legge appena approva – premio alla coalizione invece che alla lista – si disilluda presto.

Ma assai prima del referendum sulla, c’è la legge di stabilità. E a Rimini, dopo un’estate di previsioni in rosso, Renzi conferma che non saranno i proprietari di casa a doversi preoccupare, poveri o ricchi che siano. «Dal prossimo anno togliamo Tasi e Imu per tutti, non è possibile continuare questo giochino», spiega. È da intendersi l’Imu sulla prima casa. Tappa di una marcia nel fisco che prevede altri due annunci: «Nel 2017 taglieremo l’Ires, la tassa sulle imprese oggi al 31% per portarla al 24%, e nel 2018 abbasseremo l’Irpef». Propaganda anche questa? Renzi risponde di no, come non lo sarebbero stati gli 80 euro distribuiti subito prima delle elezioni europee. La ragione è questa: «La riduzione delle tasse non serve per il consenso visto che non si vota fino al 2018». Sarà davvero così? Se non ci saranno elezioni politiche, le amministrative da Milano a Roma e Napoli sono già in vista. E a riprova che le promesse le mantiene, il presidente del Consiglio cita un’altra decisione già presa – che però è in forse per i prossimi anni – la decontribuzione che per ogni assunto ha spostato più di ottomila euro di soldi pubblici alle imprese private. Dell’ingerenza del governo e del passo indietro dello stato, allora, non si è ricordato nessuno.