Può l’archeologia uscire dalla sua gabbia dorata, dall’isolamento cui l’ha confinata la modernità e incontrare la vita quotidiana degli abitanti? In altre parole, può l’area (ora solo turistica) dei Fori ritornare il centro della vita pubblica dei romani, di tutti i romani? Questa la domanda che serpeggiava nel convegno svoltosi ieri a Roma al Teatro dei Dioscuri, organizzato dall’Associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli nella persona del suo neopresidente Vezio De Lucia. Tra i relatori, oltre ad Adriano La Regina che ha aperto i lavori, il giornalista de La Repubblica Francesco Erbani (autore di un recente libro su Roma dal significativo titolo: Il tramonto della città pubblica), Rita Paris per la Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici, Anna Maria Bianchi per l’Associazione Carte in Regola e naturalmente l’assessore Giovanni Caudo interprete principale e curatore del Progetto. Già in orario di apertura, il teatro è affollatissimo, il tema ha creato molte aspettative.

Un progetto assai ambizioso, dunque, non una discussione intorno alla solita pedonalizzazione domenicale della via dei Fori Imperiali, collegamento stradale voluto dal Duce a celebrare la continuità tra l’impero romano e quello fascista. Una ferita ancora aperta nel cuore di Roma che ha comportato lo spianamento della collina della Velia e la divisione artificiale in due parti separate dell’unità storico-urbanistica più grande del mondo. Giovanni Caudo illustra il Progetto riprendendo temi e argomentazioni cari a personaggi autorevoli come Cederna, Benevolo, Insolera, Argan, Petroselli e lo stesso La Regina, che su queste questioni si sono battuti per anni.

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Di cosa si tratta? Perché dopo la morte di Petroselli, nell’ottobre del 1981, quell’ambizioso originario progetto che avrebbe potuto cambiare radicalmente l’immagine di Roma, cadde in una sorta di oblio fino a trasformarsi nella semplice pedonalizzazione del vialone nel cuore della città storica. Il sindaco Marino l’ha riesumato sebbene ancora oggi (benvenuto sia il Convegno) non se ne sia più parlato pubblicamente. Nel progetto via dei Fori Imperiali perde la sua centralità prospettica e simbolica; viene smantellata in favore del ripristino di un percorso pedonale che parte da via Baccina, nella Suburra, e collega via Alessandrina, attraversa i Fori Imperiali, via della Consolazione, arrivando in via San Teodoro e via del Velabro. Perché, afferma Caudo, tutti gli studi mostrano che gli assi per accedere ai Fori erano trasversali e scendevano da Monti. Perfino Largo Corrado Ricci subisce una trasformazione radicale per riportare alla luce il Foro della Pace. Rimane intatto, ma pedonale, il solo tratto da via Cavour al Colosseo. Petroselli aveva ben capito che non si trattava di una semplice soluzione archeologica quando affermava che di «ri-appropriazione popolare della romanità» si stava parlando. Pensava questo grande sindaco che l’area archeologica dovesse essere sottratta alla sua snaturata vocazione esclusivamente turistica e «restituita» ai romani sotto forma di una piazza; una piazza archeologica che oltre a riconnettere l’unità spezzata, diventasse anche un luogo familiare, un luogo vissuto e ri-conosciuto in primo luogo dai romani. Non basta. Con l’avvento della Modernità l’archeologia si è separata dall’urbanistica assumendo una dimensione autonoma, solitaria, relegata a tutela di reperti del passato ma dissociati dalla vita della città. Non a caso per visitare quest’area bisogna pagare. Si tratta di un lusso e, dunque, riservato a una elite di turisti o studiosi, o alle gite degli studenti; comunque fruibile da una porzione limitata di persone, meno che mai dai romani. Il progetto Fori ha la giusta presunzione di riconnettere l’archeologia con la vita quotidiana dei cittadini e di stabilire almeno un ponte tra centro e periferia attraverso la costruzione della piazza dei romani cui tanto teneva Petroselli. Sarebbe anche l’occasione (non per motivi ideologici ma semplicemente per ripristinare l’antica armonia) per eliminare fisicamente la via dell’Impero e con essa la profonda ferita inferta alla città da Mussolini che l’aveva creata artificialmente a immagine di una retorica potenza romana. Un vero progetto pubblico al servizio dei cittadini (e non solo di essi). Qui sono i romani, in primo luogo, a beneficiare di un paesaggio urbano fino a oggi solo raccontato dai turisti, dai Grand Tour del passato o osservato distrattamente di passaggio, a brani, per frammenti. L’archeologia entra a far parte della vita pubblica senza alcuna concessione al sensazionalismo e allo spettacolarismo.

Se davvero si vuole che la piazza archeologica diventi la piazza dei romani occorre farli innamorare di questo progetto, coinvolgerli, renderli partecipi, così come erano capaci di fare il sindaco Petroselli e il compianto Renato Nicolini. Inutile negare che la scomparsa di questa «autostrada dei Fori» aprirebbe un conflitto cittadino molto aspro (si pensi solo al traffico) che sindaco e giunta sarebbero chiamati ad affrontare. Perché allora non coinvolgere i romani tutti, organizzare, ad esempio, una lista-manifesto di «persone innamorate» di questo progetto (intellettuali, storici, teatranti, interpreti popolari della romanità, ecc.)? Mi verrebbe da consigliare (benevolmente) al sindaco: «A Ignazio datte ‘na mossa, ‘sto popolo o’ devi fa innamorà se glie voi tirà fora er meglio suo». Detto altrimenti Marino trarrebbe una grande forza dalla partecipazione popolare, ma qui vengono in risalto le ormai (purtroppo) note difficoltà di comunicazione che questa amministrazione ha con i romani. Così come rimangono aperte questioni importanti non ancora affrontate senza le quali questo ambizioso progetto non avrebbe futuro alcuno: un piano del traffico che liberi Roma dal suo destino di capitale soffocata dalle auto, l’enigma della metro C, la questione dei rifiuti, dell’accoglienza e tante altre cose ancora. Molte iniziative appaiono ancora disarticolate e non coordinate come se mancasse una cabina di regia all’altezza dei propositi. La vita di Marino-sindaco è irta di difficoltà; lo attendono prove concrete e la strada è ancora tutta in salita per risalire la china da cui è precipitata la città in tanti anni di politiche sbagliate o avventurose alla ricerca di effetti speciali. Ma la pur proverbiale indolenza e pazienza dei romani ha anch’essa un limite come ci ricorda Cicerone: quo usque tandem