«Io volevo diventare pittore, nessuna forza al mondo avrebbe fatto di me un impiegato. Strano però il fatto, che col crescere degli anni aumentasse in me l’interesse per l’architettura». Così Adolf Hitler in una pagina di La mia vita. E, poco più avanti, rammentando il suo fallito esame per l’ammissione alla classe di pittura dell’Accademia di Vienna, ricorda che, a Vienna, «eran quasi sempre i palazzi che mi attiravano a tutta prima. Ero capace di passare delle ore davanti all’Opera o davanti al Parlamento».

Si convinse allora, scrive, «che non ero assolutamente adatto a fare il pittore, ma che il mio talento mi portava piuttosto verso il campo dell’architettura, non c’era per me altra prospettiva». E aggiunge: «volevo diventare architetto, e rifiutavo di ammettere ostacoli, davanti ai quali dovessi capitolare». La vita di Hitler, sappiamo, prese un altro corso.

«’Come mi sarebbe piaciuto diventare architetto!’ mi ripeteva Hitler» scrive nel suo Memorie del Terzo Reich Albert Speer (1905-1981), l’architetto al quale il Führer affida fin dal 1933 la realizzazione delle grandi opere. E, con finezza, Speer considera: «A volte mi chiedo se negli anni Venti, qualora avesse incontrato un committente danaroso, Hitler non avrebbe lasciato perdere la carriera politica. Io credo che, in fondo, la sua coscienza di una missione politica e la sua passione d’architetto fossero inscindibili».
Il ‘colossale’ e il ‘grandissimo’ contrassegnano la cifra architettonica propugnata e imposta da Hitler.

Lo spazio nazista edificato ha da essere smisurato tanto in altezza quanto in estensione. La grandezza incommensurabile degli spazi costruiti del Reich configura la dimensione sterminata dei tempi del Reich che eccedono quelli storici, per affermarsi eterni nella realizzazione di un sogno millenario. Dice Speer: «Il suo entusiasmo non era mai rumoroso, Hitler faceva parco uso di parole grosse, sembrava quasi che nei momenti di entusiasmo fosse preso come da un timore reverenziale: il timore reverenziale per una grandezza creata per suo ordine e proiettata verso l’eternità».

È assai opportuno tenere da conto questa relazione architettura-tempo che giace nel ‘colossale’ hitleriano. Il ‘grandissimo’ ha la capacità di azzerare la storia, i suoi corsi e ricorsi, l’evolversi o il rivolgersi delle sue dinamiche per fissare il tempo storico in una ‘eternità’ eretta una volta per sempre.

Esemplari due opere architettoniche da costruirsi a Berlino. Una cupola del diametro di duecentocinquanta metri su una superficie di trentottomila metri quadrati, capace di accogliere centocinquantamila uomini. Un arco di trionfo alto centoventi metri, memoriale dei caduti della guerra mondiale con incisi i nomi di un milione e ottocentomila morti. E Speer racconta dei due schizzi dell’arco e della cupola tracciati da Hitler nel 1925, su due foglietti di cartone che gli consegna con queste parole: «Ho abbozzato questi disegni dieci anni fa. Li ho conservati, perché non ho mai dubitato che un giorno li avrei costruiti. E li faremo così».

Accennavo al concetto di architettura legato a quello di eternità. Un concetto che si muove dentro una dimensione del tempo che credo afferisca propriamente alla dimensione della morte. La presenza della morte nella architettura colossale equivale alla cancellazione di ogni singolo individuo rispetto ad essa.

«La morte è un Mastro di Germania (der Tod ist ein Meister aus Deutschland)» canta Paul Celan in Papavero e memoria. Questa dimensione ‘costruttiva’ affidata alla morte, ovvero la ‘eternità’ edificata nel ‘colossale’, ha il suo perfetto risvolto o, si dica, rispecchio, nell’architettura del Lager. Non si tratta, ovviamente, di istituire un raffronto improprio, edilizio, tra l’effimera baracca di Auschwitz e l’arco di granito di Berlino.

È una ragione costruttiva che opera per la morte quella progettualità hitleriana del ‘grandissimo’, essa realizza il ‘colossale’ anche nella forma del Lager, lo spazio edificato ove si opera per la morte, si agisce per lo sterminio, per la ‘soluzione finale’.