«Si presenta bene, ma non dà dettagli sulle politiche economiche. Assomiglia a Tony Blair»». Così Farage ha commentato a Sky News il discorso di Renzi al Parlamento europeo. Secondo il premier «non c’è solo la stabilità ma anche la crescita (…). Assicureremo un domani alla Ue». Oggi i Trattati Ue non consentono crescita. Per garantire un domani occorre creare lavoro vero; per farlo occorre investire. O si mantengono le regole attuali aumentando disoccupazione e fallimenti di imprese oppure si cambia il patto di stabilità e si concede la possibilità di un piano di sviluppo. Al contrario, nel documento «Strategic Agenda for the Union in Times of Change» (che i 28 leader europei hanno approvato il 27 giugno) si parla solo di «un buon uso della flessibilità che è prevista nelle regole dell’esistente patto di stabilità e crescita».

Sull’aggettivo «esistente» si sgretola la presunta vittoria italiana sul rigore tedesco. Non abbiamo ottenuto nulla sullo sforamento del patto perché il riferimento al «buon uso della flessibilità» è slegato dall’applicazione delle 4 regole d’oro dell’art. 126, par. 3, del Trattato di funzionamento della U3 (Tfue); rafforzate dal fiscal compact (in vigore da gennaio 2013) sono i quattro cardini dell’austerità: a) l’impegno ad avere un bilancio pubblico in pareggio (in equilibrio) o in avanzo (positivo); b) il rapporto deficit/Pil inferiore al 3%; c) salvo casi eccezionali è attivato automaticamente un meccanismo di correzione per lo Stato che sfora; d) inserimento del fiscal compact negli ordinamenti degli stati membri, preferibilmente in Costituzione.

Vediamo il margine di flessibilità esistente. Il Protocollo n. 12 allegato ai trattati europei sulla procedura sui disavanzi eccessivi (sforamento tetto del 3%; rapporto debito/Pil sopra il 60%) ammette scostamenti a condizione che: il superamento del 3% sia eccezionale e temporaneo; il rapporto disavanzo pubblico/Pil diminuisca in modo sostanziale e continuo; il rapporto debito pubblico/Pil si stia avvicinando in modo adeguato al valore di riferimento del 60%. Solo grazie a questa locuzione l’Italia nel 1998 entrò nell’euro poiché su un piano contabile il rapporto debito pubblico/Pil era pari al 121,6%. Ora siamo al 135, sarà impossibile avere margini di flessibilità. Quali sanzioni rischiamo? La Banca europea per gli investimenti potrebbe interromperci i prestiti oppure il Consiglio Ue potrebbe chiederci di costituire un deposito infruttifero a Bruxelles fino allo 0,3% del Pil (4,8 miliardi circa) per ogni punto di sfondamento del 3%. L’unica eccezione contemplata è che Bruxelles riconosca che l’Italia è in una grave recessione.

Questo Renzi avrebbe dovuto dire ieri. Vediamo cosa ci aspetta. Il ministro Padoan presiederà l’Eurogruppo il 7 luglio, l’Ecofin l’8 luglio: lì si approveranno le Raccomandazioni per i 28 paesi Ue. L’Italia è in difficoltà dopo aver annunciato ad aprile il rinvio del pareggio strutturale di bilancio dal 2015 al 2016. Bruxelles nelle Raccomandazioni non concorderà con l’Italia perché l’aumento del Pil nel 2014 sarà al massimo dello 0,6% (stima Bce e Fmi) e non dello 0,8 come sostenuto dal governo. Qualora l’Italia non invertisse l’andamento del rapporto debito/Pil, Bruxelles ci chiederebbe una manovra aggiuntiva ad ottobre: tra i 17 e i 25 miliardi di euro per coprire anche la stabilizzazione del bonus Irpef da 80 euro e la cassa integrazione in deroga. Soluzioni alternative? Occorre abolire il pareggio di bilancio e alzare il limite del 3% nel rapporto deficit/Pil. O almeno escludere dal patto di stabilità il cofinanziamento italiano ai programmi Ue. Sono 55 miliardi fino al 2020, la metà dei 110 dei programmi regionali e nazionali. Avremo due canali finanziari.

Primo: i rimanenti 26,4 miliardi dei programmi del ciclo 2007-2013 cofinanziati dal Fesr (Fondo europeo di sviluppo tegionale), dal Fse (Fondo sociale europeo) e dal Feasr (Fondo europeo agricolo di sviluppo rurale). Dobbiamo spenderli entro il 2015 altrimenti l’Ue riprenderà il cofinanziamento. Secondo: gli 84,2 miliardi dei programmi 2014-2020: metà cofinanziamento europeo, metà cofinanziamento italiano. Secondo il leader M5S Grillo la Ue non deve dare i fondi europei all’Italia perché vanno alla mafia. Assurdo: senza questi soldi il Meridione non uscirebbe dalla crisi. Per Puglia, Sicilia, Calabria, Campania e Basilicata ci sono i rimanenti 18,3 miliardi del ciclo 2007-2013 e circa 50 miliardi del ciclo 2014-2020. «I problemi italiani nascono dall’Italia e non dall’Ue (…). L’Italia non chiede scorciatoie, faremo la nostra parte» ha detto ieri Renzi. Per coerenza dovrebbe fare ciò che Bruxelles chiede proprio sui fondi Ue. Affinché l’Italia possa spendere questi soldi, la Commissione deve approvare il documento di programmazione: l’accordo di partenariato. Il 10 marzo la Commissione con 45 pagine di Osservazioni ha criticato il documento inviato dal governo Letta il 9 dicembre poiché «manca completamente l’analisi della capacità amministrativa».

Bruxelles vuole «personale sufficiente e qualificato» in materia di controllo, un «adeguato sistema informativo», e, poiché le autorità italiane di gestione devono avere personale competente e adeguato, chiede al governo una «procedura di verifica» del loro personale: qualora la verifica fosse negativa, il governo dovrebbe attuare un piano di miglioramento oppure sostituire l’autorità preposta. Sul monitoraggio indipendente Bruxelles chiede quale percentuale di progetti sarà «oggetto di una visita almeno una volta durante l’esecuzione» (p. 42) e giudica non chiare le misure concrete per garantire nelle regioni meridionali le competenze per usare i fondi con efficacia e trasparenza (p. 43).

L’Italia lo ha fatto? No. Il 22 aprile il governo ha inviato il nuovo Accordo di Partenariato. Nelle Raccomandazioni all’Italia del 2 giugno il Consiglio Ue a pag. 5 scrive ancora che sulla «gestione dei fondi Ue» continuano a ripercuotersi «l’inadeguatezza della capacità amministrativa e la mancanza di trasparenza, di valutazione e controllo della qualità»; sono stati attuati solo «interventi parziali e incompleti, soprattutto nelle regioni meridionali».

* esperto fondi strutturali europei, già consulente II Governo Prodi