«I just want to go home». Questa la frase pronunciata da uno dei quattro rifugiati, le cui generalitá non sono mai state rese pubbliche, provenienti dal campo profughi di Nauru (Australia) arrivati in Cambogia nella prima settimana di giugno. La storia aveva fatto abbastanza scalpore: si tratta dei primi quattro rifugiati «dirottati» in Cambogia dal governo australiano in virtù dell’accordo che prevede – specificano le autorità – il consenso dell’interessato.
La Cambogia, come Paese ospitante, ha il dovere di prendersi carico della situazione e di gestirla al meglio. I contatti con Myanmar sono giá iniziati ma non è una faccenda semplice. L’uomo appartiene infatti all’etnia Rohingya uno dei gruppi etnici più perseguitati e discriminati del mondo. La comunità vive nella regione di Rakhine al confine con il Bangladesh ed è formata da circa 800mila persone. Da sempre i Rohingya, essendo musulmani, sono oggetto di forti discriminazioni da parte della maggioranza buddhista del paese. La popolazione birmana non ha mai accettato la loro permanenza sul territorio e non sono mai stati considerati parte della stessa nazione.
L’uomo sognava inizialmente di raggiungere l’Australia, poi è arrivata la Cambogia e ora la decisione di tornare a casa. Con tutto quello che questa comporta. Le motivazioni di questa scelta sono da ricercarsi perlopiù nella difficoltà di adattamento alla Cambogia, almeno questa la versione ufficiale che circola, confermata dagli attivisti delle Ong che dall’inizio seguono il caso. Non ha trovato quello che sognava quando è scappato da Myanmar e la realtà della Cambogia è probabilmente molto diversa da quello che gli era stato raccontato.
Strano però, perché fin dal momento del suo arrivo a Phnom Penh il ministero degli Interni e lo Iom (International organization for migration) avevano solo riportato dichiarazioni positive da parte del rifugiato; dicevano che era felice, che apprezzava la cucina e la gente del luogo.
Gli attivisti per i diritti umani stanno chiedendo al governo cambogiano di seguire il caso anche dopo l’arrivo dell’uomo a Myanmar per garantirne la sicurezza e l’incolumità. Il governo si è impegnato a monitorare la situazione: così come nessuno dei quattro richiedenti asilo è stato forzato a venire qui – dicono le autorità – nessuno sarà obbligato a restarci.
Il telefono di Suon Bunsak, Segretario Generale del Chrac (Cambodia human rights action committee), continua a suonare da giorni perché – dice lui – tutti sono curiosi di sapere come finirà questa vicenda.
A oggi, l’ambasciata australiana a Phnom Penh non ha ancora commentato. «Fin dall’inizio noi ci siamo fermamente opposti a questo accordo – dice Bunsak – ritenendolo una violazione dei diritti umani. Quello che sta succedendo è semplice: questo accordo sta viaggiando spedito verso il fallimento. Appena questa storia arriverà al campo di Nauru, nessuno vorrà accettare ancora Phnom Penh come destinazione finale».
Quale sarà il destino dei tre rifugiati iraniani arrivati insieme al rohingya? Bunsak scuote la testa: «È solo questione di tempo, poi se ne andranno anche loro».