Proprio come un barcone carico di disperati e in balia delle onde, la politica europea sull’immigrazione è sempre più in alto mare. Già nell’ultimo consiglio europeo del 16 ottobre erano emerse difficoltà riguardo al piano di ricollocamento di 160 mila profughi in due anni, problemi dovuti alle resistenze mostrate in particolare dai paesi del gruppo Visegrad. Ieri fonti Ue a Bruxelles hanno lanciato l’allarme sulla possibilità che l’intero piano possa adesso saltare, provocando una paralisi nei trasferimenti dei richiedenti asilo da Italia e Grecia. E come se non bastasse aumentano le tensioni alle frontiere. La Slovenia ha annunciato di voler inviare l’esercito ai tutti i suoi confini per fermare l’arrivo dei profughi, mentre la Croazia starebbe pensando di innalzare un muro al confine con la Serbia, dove migliaia di uomini, donne e bambini sono bloccati da giorni sotto la pioggia e al freddo. Insomma il caos, di fronte al quale Bruxelles, quando ormai sono ormai passati più di sei mesi dall’inizio della crisi che ha coinvolto i Balcani, sembra oggi ancora incapace di reagire.
In teoria ogni mese dovrebbero partire dall’Italia 1.500 profughi siriani e eritrei. In realtà con i 70 che lasceranno il paese oggi i posti a disposizione sarebbero già finiti. Almeno stando a quanto riferito ieri da alcune fonti a Bruxelles. Il problema è che finora solo sei paesi – Austria, Germania, Francia, Lussemburgo, Spagna e Svezia – si sono detti disponibili ad accogliere i richiedenti asilo, mentre tutti gli altri preferiscono ignorare la richiesta avanzata dalla commissione europea di Jean Claude Juncker. Il rischio, sottolineano a Bruxelles, è che così si inceppi il meccanismo, rendendo impossibile proseguire nei ricollocamenti. A complicare ulteriormente le cose ci sarebbe poi anche la diffidenza mostrata da molti profughi, restii a lasciare l’Italia e la Grecia per paura di essere portati fuori di confini dell’Unione. Problemi ci sarebbero stati perfino per reperire il primo gruppo di eritrei diretti in Svezia, mentre nessun siriano si sarebbe detto disponibile a partire.

Altro problema riguarda la Turchia. Dell’accordo messo a punto con Ankara che il vicepresidente della commissione Ue Frans Timmermans aveva annunciato al consiglio europeo della scorsa settimana, sembra non esserne rimasta traccia. In Turchia sono presenti due milioni e mezzo di profughi siriani e per impedire loro di partire alla volta dell’Europa il presidente Erdogan vorrebbe un riavvio del processo di integrazione europea del paese, la liberalizzazione dei visti, la classificazione della Turchia come paese sicuro e tre miliardi di euro. Tutte richieste sulle quali però a Bruxelles più di un leader dei 28 ha mostrato molti dubbi nel concedere tanto a un paese dove scarso è il rispetto dei diritti umani. Per quanto riguarda la liberalizzazione dei visti, possibile primo passo verso Ankara, l’Ue sarebbe disponibile a concederla gradualmente, riconoscendola prima agli imprenditori e agli uomini d’affari turchi e poi al resto della popolazione. Ancora niente da fare, invece, per quanto riguarda i finanziamenti per i campi profughi già esistenti e per la realizzazione di altri sei: dei 3 miliardi promessi finora ci sarebbero infatti solo i 500 milioni di euro messi a disposizione dal bilancio europeo. Mancano ancora le quote a carico dei paesi membri.

Ma se la politica è ferma al palo, non è certo lo stesso per polizie e soldati, sempre più impegnati dai vari paesi per arginare la marcia dei profughi. A farne le spese in questi giorni sono le migliaia di persone bloccate al valico di Berkasovo-Bapska, al confine tra Croazia e Serbia. Una folla disperata di uomini, donne e bambini costretta ad aspettare nel fango, al freddo e sotto la pioggia di poter passare il confine per dirigersi poi verso l’Austria e la Germania. Persone che hanno bisogno di tutto visto che molte di loro indossano ancora abiti e scarpe estive. Ma servono anche viveri, medicine e coperte. Lo stop ai passaggi è dovuto alle decisione di Vienna e della Slovenia di ridurre l’afflusso di migranti provenienti dalla rotta balcanica, provocando così un rallentamento a cascata. Con la Slovenia che sua volta accusa la Croazia di non arginare le partenze. Uno scarica barile generale, di cui a pagare le conseguenze sono solo e soprattutto i tanti disperati in cerca di una nuova vita.