Una donna di circa trent’anni gironzola per i viali del Villaggio olimpico. Guarda verso l’alto il cielo coperto dai pini. Non è la sola. Ad ogni finestra, in ogni giardino, ad ogni angolo di strada, i romani sono tutti con il naso all’insù. Tutti tengono davanti agli occhi uno schermo solare. Piano piano, le ombre spariscono. Cos’è un’eclissi ? Non è mai una vera caduta nell’oscurità. Piuttosto, l’apparizione d’una strana luminescenza. Somiglia a quel vecchio trucco cinematografico che dalle nostre parti chiamiamo «effetto notte», e che consiste a girare di giorno con un filtro che simula la notte trasformando la luce del sole nel flebile chiarore del nostro unico satellite. La donna si è fermata in un piazzale, è uscita dalla macchina e osserva a sua volta, dietro un paio di occhiali neri, il fenomeno astronomico. Intorno, è un coro di cani che abbaiano sconsolati. Un padre spiega ai più piccini, e agli spettatori della stessa età, che gli animali sono terrorizzati da questi fenomeni di cui non capiscono la natura e di cui ignorano il carattere transitorio. E se i cani avessero ragione ? Cosa accadrebbe se il sole e la luna, invece di continuare la loro corsa rispettiva restassero allineati ? Accadrebbe quello che capita più tardi all’escort Diana (Ilenia Pastorelli) la quale, in seguito ad un’aggressione, perde effettivamente l’uso della vista.

È CON QUESTA sequenza programmatica che Dario Argento inizia il suo nuovo film, Occhiali neri – passato nella sezione Special Gala – annunciando un thriller angosciante ma, quasi che le cose fossero conseguenza del nome, al chiaro di luna. La storia che segue è però di tutt’altra materia. I tecnici degli effetti speciali si sono particolarmente spesi per garantire un realismo assoluto degli efferati omicidi di cui il film abbonda, con particolare perizia nei dettagli anatomici della trachea che in una delle prime scene è lacerata in primissimo piano con un filo metallico; e che nel gran finale viene divorata da un cane guida. In entrambi i casi, Argento salta con entusiasmo da un discreto ma inquietante campo lungo ad un impietoso primissimo piano sulla lacerazioni, indugiando a lungo sul sangue di colore rosso arterioso che fluisce copiosamente, pompato dal cuore ancora attivo della vittima morente.
Tra queste due scene il film lascia pochissimo spazio all’immaginazione visiva e moltissimo a quella psicologica. Del killer non sapremo nulla, se non che: l’arredamento di casa sua è piuttosto approssimativo; il suo televisore catodico passa non stop dei filmini delle sue passate efferatezze; sul suo tavolino si trovano sempre due strisce di cocaina pronte all’uso; « puzza di cane ».

LA PROTAGONISTA femminile del film non è meglio tratteggiata. Call girl romana di circa trent’anni, in fuga per tutto il film con un bambino (cinese) al fianco e un furgone nero (poi bianco) alle spalle, il film ci dirà di lei che non ama il FF (first fucking) e che non vuole finire ammazzata dal maniaco del furgone. Dalla recitazione di Ilenia Pastorelli si può dedurre poco di più, se non che l’attrice non sembra a sua volta avere un’idea più articolata del proprio personaggio.
Intorno ad ogni nuovo film di Dario Argento c’è una certa attesa, e una sincera speranza che il regista torni a stupire. L’immaginario dei suoi migliori film è legato ad periodo della storia del cinema in cui dominava l’idea che l’immagine fosse, per così dire, fatta di più strati, di più livelli e che per conquistare quello vero bisognasse lottare contro quello apparente e già visto. Non è stato l’unico a giocare con questo paradigma, che è quello di Antonioni, di De Palma, Di Coppola e che in fondo è una sorta di punto di incontro tra il cinema e la cronaca, tra Hitchcock e Zapruder. Non è stato l’unico ma è stato tra i più inventivi. Sarebbe poco dire che qui l’inventività gli fa difetto. L’idea della cecità avrebbe potuto essere una leva di situazioni angosciose, da moltiplicare esplorando il buio; Occhiali neri – ne fa poco meno d’un inciampo e poco più d’un meccanismo proto-comico. Ad un film che si ispira alla serie B non si può rimproverare una certa pressappochezza della sceneggiatura, ché in una certa misura è un marchio del genere. Ma non si può neanche perdonare che si limiti ad imitare solo questo.