Bisogna avere dimestichezza con gli investigatori, quelli privati e quelli in divisa, per apprezzare in pieno l’originalità di Nick Duffy, ex poliziotto messo alla porta e riciclatosi private eye di serie b, protagonista di quattro romanzi firmati dall’inglese Dan Kavanagh, pseudonimo di Julian Barnes, il primo dei quali, Duffy, del 1980, fugacemente comparso nelle librerie italiane all’epoca, è ripubblicato ora in nuova traduzione di Norman Gobetti (Einaudi, pp. 179, euro 19.00). Duffy è un tipo normale, né eroe né anti-eroe. Porta incise nell’anima le sue brave cicatrici, non sempre rimarginate, ma senza quell’aura di romantica e un po’ compiaciuta malinconia che, da Philip Marlowe in poi, è obbligatoria quanto la pistola per chiunque si impicci di delitti. Del resto, Duffy nemmeno la porta la pistola, e in questo romanzo, che pure non è per nulla tenero e anzi indugia in efferatezze, nessuno ci rimette la pelle: caso probabilmente unico nell’intero catalogo mondiale del noir.

Tra i molti e vincolanti lasciti che il maestro Raymond Chandler ha imposto alle centinaia di suoi epigoni figura, chissà perché, una pruderie quasi vittoriana. I detective possono innamorarsi e spesso, dietro la loro spinosa scorza, nascondono un cuore spezzato; ma col sesso hanno poco a che spartire. La pura dedizione al desiderio è una debolezza inammissibile per chi ha ereditato il ruolo del cavaliere, e del cow boy solitario. Duffy, invece, di debolezze ne conta parecchie. Tra queste una propensione ai fugaci incontri di letto, con l’uno e con l’altro sesso, che gli è costata la carriera e la divisa. Un detective hard-boiled sessualmente promiscuo e bisex è una rarità pregiata anche oggi: nel 1980 rasentava l’inconcepibile. Quanto a realismo e verosimiglianza l’omissione non era trascurabile trattandosi di personaggi che si muovono in una dimensione, quella dell’underworld e del malaffare, in cui la bramosia sessuale è seconda solo alla cupidigia.

Duffy è in realtà un romanzo molto attento a non varcare i confini del possibile e del realistico, anche se la materia cruda e brutale propria dell’hard-boiled è lavorata con una dose massiccia di umorismo molto britannico, contenuto però con perizia per non degenerare nel grottesco. L’autore calca un po’ la mano per assicurare il ritmo veloce del romanzo d’azione e rende i personaggi pittoreschi quanto basta per consentire l’ironia, ma si ferma sempre prima di renderli stereotipi o trasformarli in maschere. L’antagonista, Big Eddie, gangster con robuste ambizioni sociali e velleità culturali, convinto che conoscere segreti scabrosi sia più utile di un pestaggio o di un’ammazzatina, è un personaggio da antologia dei migliori vilains nell’epopea del noir.

Il talentuoso creatore di Duffy si è prodotto per un solo decennio. L’ultimo titolo della serie è uscito nel 1989, poi né di Nick Duffy né di Dan Kavanagh si è più saputo nulla. In realtà era anche lui, lo scrittore, un personaggio immaginario: al momento della pubblicazione di Duffy, Julian Barnes non era ancora l’acclamato autore del Pappagallo di Flaubert e aveva portato in libreria solo il romanzo d’esordio, Metroland. Del resto, non è lui il primo scrittore ad aver accostato alla produzione mainstream un filone noir, coperto da pseudonimo: lo avevano già fatto il poeta inglese Cecil Day-Lewis, padre di Daniel, che con lo pseudonimo di Nicholas Blake ha pubblicato venti gialli contro solo tre romanzi mainstream, poi Gore Vidal, in parte per sfuggire all’anatema piovutogli addosso dopo la pubblicazione dell’«osceno» The City and the Pillar, celandosi dietro la firma Edgar Box. Attualmente un altro dei principali scrittori contemporanei in lingua inglese, l’irlandese John Banville, alterna abitualmente alla sua produzione «ufficiale» i noir firmati Benjamin Black, mentre K.J. Rowling affianca a Harry Potter le crime stories di «Robert Galbraith».

Il rapporto di ogni scrittore con il proprio sanguinario alter ego varia a seconda delle personalità. Il caso di Barnes sembra identico a quello descritto da Stephen King nel suo magistrale La metà oscura, dove uno scrittore di solito squisito dava poi sfogo alla sua più truce e sanguinolenta immaginazione dietro lo scudo di un nome fittizio. Lo stesso Barnes, nella sola intervista in cui abbia accettato di affrontare l’argomento, parlava dell’escursione nei panni di Kavanagh come di un’esperienza «liberatoria, in quanto mi permetteva di indulgere in qualsiasi fantasia di violenza». E certo non è un caso se le storie di Nick Duffy sono ambientate in ambienti sordidi, come la Soho della pornografia e della prostituzione di questo romanzo, contesti molto lontani da quelli che Barnes predilige nei suoi romanzi.

A differenza degli altri scrittori che si affidano a pesudonimi, Julian Barnes non ama e forse non ha mai amato la propria efferata controparte, forse perché incarnava troppo consapevolmente la sua «metà oscura».
Dopo l’89 Dan Cavanagh è stato eliminato, per ora senza appello. Quando, nella primavera del 2014, i romanzi della serie Duffy, ormai fuori catalogo, sono stati ripubblicati in Inghilterra, Barnes si è rifiutato di pubblicizzarli; ma già dal momento in cui lo aveva inventato, Kavanagh esibiva una biografia (riportata da Einaudi nel risvolto di copertina) decisamente caricaturale: «Mozzo su una petroliera liberiana, stutman nei rodei, cameriere su pattini a rotelle in un drive-in di Tucson, buttafuori in un locale gay di San Francisco». Tuttavia, la abiura caparbia della sua creatura, sommata alla cura estrema profusa nel testo, autorizzano il sospetto che il raffinato Barnes abbia investito in Dan Kavanagh di più e non di meno di quanto abitualmente investa chi usa la mano sinistra per scrivere «sotto copertura» di pseudonimo, e forse più di quanto a lui stesso piaccia ammettere.

Duffy non è affatto un libro caricaturale, o lo è solo in superficie. Riflette piuttosto uno sguardo sul mondo sotterraneo, sulle sue dinamiche e sulle sue innovazioni agli albori degli anni ’80, privo di fascinazione romantica e dunque allo stesso tempo beffardo e freddamente analitico. Barnes-Kavanagh individua e racconta il percorso lento, apparentemente indolore, che spinge gli uomini della legge verso la corruzione. Scopre la trasformazione della malavita dal rozzo banditismo di strada in un’imprenditoria rampante e astuta, in fondo non troppo dissimile dalla sua versione «legale». Indica con intuizione, all’epoca più che tempestiva, come le armi da fuoco abbiano sostituito quelle ben più letali dell’informazione e la conseguente possibilità di ricatto come strumento privilegiato dei criminali più evoluti e ambiziosi.

La Londra in cui agisce Nick Duffy è certo inattuale: ambientato prima della grande rivoluzione thatcheriana, il romanzo si lancia contro i vizi dei governi laburisti nei decenni precedenti, senza immaginare che quella Inghilterra sarebbe stata di lì a pochi mesi spazzata via dalla Lady di ferro. Della Soho traboccante di sesso a buon mercato restano solo nostalgiche memorie, così come, nell’età licenziosa di Internet, dell’allora fiorente mercato clandestino della pornografia. Ma inattuale non vuol dire datato: tanto a chi ama il noir che a chi frequenta letture più sofisticate, Duffy offre un intrattenimento imperdibile.