Fernand Céline in Viaggio al termine della notte esprime in questi termini la realtà massmediologica in tempo di guerra: «Si mentiva con rabbia oltre immaginazione, oltre ogni ridicolo e ogni assurdo, nei giornali (…) Ci si eran messi tutti. A gara chi mentiva più enormemente di tutti. E presto non si ebbe più alcuna verità (…). Tutto quello che si leggeva (…) non era se non una scena di odiosi fantasmi, di truccature e di mascherature».

Non è ancora il livello raggiunto in Italia, anche perché non siamo nel mezzo del coinvolgimento totale della Grande guerra. Non è, però un bel segnale quando editoriali di giornali cosiddetti «autorevoli», editoriali firmati da altrettanto autorevoli professori, si esprimono sui venti di guerra che stanno soffiando forte con commenti che appaiono quasi del tutto privi degli strumenti analitici connessi alla loro professione.

Che i professori scrivano sui giornali è senz’altro buona cosa. «il manifesto» ne conta, percentualmente, un numero che molto probabilmente è il più alto tra i giornali italiani. È anche buona cosa la nettezza, persino la durezza, della polemica politico-culturale. Il professore che scrive sul «Corriere della sera» ha senz’altro motivazioni profonde di dissenso rispetto al professore che scrive su «il manifesto». La questione riguarda la ricchezza dell’analisi che motiva il profondo dissenso.

Quando studiavo problemi connessi a quella «battaglia sul metodo» per la scienza economica che a cavallo tra Ottocento e Novecento coinvolse importanti economisti, sociologi, storici, epistemologi, constatavo che quasi sempre gli articoli giornalistici dei protagonisti (e si trattava magari di Pareto e Pantaleoni) altro non erano che la trasposizione mediata della loro riflessione scientifica.

È ovvio che il contesto di opinione pubblica del «Corriere» di oggi è molto diverso da quello del «Corriere» di Albertini, ma davanti a editoriali quali quello di Panebianco del 18 agosto («Le complicità occidentali») non si può non essere colti da stupore, smarrimento e anche da un qualche imbarazzo. È inutile misurare la distanza tra dimensione professionale e mediazione giornalistica; la prima semplicemente non c’è. Ci troviamo di fronte a un esercizio di demonologia con annesse maledizioni ed esorcismi.

I rimandi analitici non sono necessari per una narrazione che ignora storia reale, qualsiasi distinzione di piani, per rappresentare la lunga vicenda intellettuale, sociale, politica dell’antitesi. Un’antitesi, tra l’altro, del tutto occidentale proprio nella sua forma di teoria critica e nelle forme organizzative, nelle lotte sociali e politiche che hanno interessato milioni di persone. Ebbene tutto questo si riduce ad una vicenda di «quinte colonne».
Per Panebianco, dunque, la spiegazione per la presenza di queste «quinte colonne» dei «totalitarismi», in primis di quello comunista, oggi di quello islamico «è nella sua tragicità abbastanza semplice. Le società democratiche occidentali hanno sempre contenuto al loro interno quote più o meno ampie di persone che le odiano e vorrebbero distruggerle. Persone che di tali società rifiutano l’individualismo congenito, ne negano il carattere democratico, disprezzano i diritti di libertà di cui godono i loro concittadini, provano ripugnanza per il «materialismo» occidentale, per il fatto che le società democratiche siano soprattutto impegnate nella ricerca del benessere economico» (ivi)
I responsabili sono le «mosche cocchiere», gli «intellettuali», anzi gli «pseudo intellettuali» che rappresentano «una quota incomprimibile di alienati» (ivi).

Non è necessario essere professori per sentirsi imbarazzati di fronte a questa «semplice» spiegazione. Nel contempo siamo grati a Panebianco per averci dato nuovi stimoli di riflessione su uno dei concetti fondamentali della teoria critica: quello di «alienazione». È legittimo chiedersi se l’editoriale in questione avrebbe soddisfatto i criteri di qualità di un «Corriere» davvero autorevole. Senza bisogno di tornare indietro fino a Luigi Albertini.

[do action=”quote” autore=”Fernand Céline, Viaggio al termine della notte”]Giornali in tempo di guerra: «Si mentiva con rabbia oltre immaginazione, oltre ogni ridicolo e ogni assurdo, nei giornali ci si eran messi tutti. A gara chi mentiva più enormemente di tutti. E presto non si ebbe più alcuna verità. Tutto quello che si leggeva non era se non una scena di odiosi fantasmi, di truccature e di mascherature»[/do]

Sempre sullo stesso giornale, un altro professore, Galli della Loggia, ci richiama, per una corretta valutazione della guerra diffusa e di quella incombente, al «principio di realtà» («Noi in fuga dalla realtà», 22 agosto). Ci avverte, inoltre, che non sono le idee ad essere decisive sui meccanismi di funzionamento del mondo. Come non condividere. Anche in questo caso, però, la «realtà» rappresentata nell’editoriale appare insieme monodimensionale e ideologica, costruita, in fondo, intorno a «una idea». Un’idea che per l’autore è «ormai fuori dall’uso pubblico», respinta dal «gusto democratico corrente»: la «categoria (…) di “guerra di civiltà”».

Un’idea forte, ma pur sempre soltanto un’idea. Paradossale esempio di riduzionismo, molto comune tra coloro che accusano di tale ristrettezza prospettica chi si ispira agli strumenti interpretativi delle teoria critiche.

Il giovane Galli della Loggia, invece, con particolare intelligenza critica, teorizzava e praticava strumenti analitici assai fecondi. Ricordo, ad esempio, un bellissimo saggio su La fondazione della Banca italiana di sconto, nella sostanza un saggio sull’imperialismo italiano. Di contro a una storiografia «volgare» (il termine marxiano veniva usato anche dal giovane studioso, Età contemporanea: storia del capitalismo o storiografia “volgare”?) Galli della Loggia utilizzava gli strumenti della storia strutturale. Una storia fatta da livelli temporali e insiemi fattuali diversi: il compito dello studioso consisteva nella costruzione di un sistema di relazioni frutto di una attenta ponderazione, appunto, di quel complesso di diversità. Un tipo di sguardo che, sia pure nella specificità del mezzo, è necessario anche in articolo di giornale per misurarsi davvero con la «realtà».

E allora è proprio Galli della Loggia ad essere «in fuga» dalla realtà. È in fuga da una realtà molto complessa e contraddittoria che contempla logiche geopolitiche strettamente coniugate a logiche di vera e propria guerra economica.

Guerra economica a sua volta connessa con le forme assunte dalla fase di accumulazione capitalistica in corso. È in fuga da una realtà che è anche il frutto di un lungo percorso in cui la creazione di «Frankestein» islamisti è stata funzionale alle guerre a bassa (non sempre) intensità interne alle logiche suddette.

La faccia orribile di questa realtà che ci troviamo oggi a guardare è la risultante di questi processi. Ci troviamo di fronte ad una tragedia che ci riguarda. La consapevolezza della tragedia è necessaria, ma solo conoscendone davvero la realtà, cioè la genesi, possiamo provare a fare le scelte giuste per affrontarla.

Dai professori che scrivono sui giornali, dunque, vogliamo aspettarci ben altro rispetto a manifestarsi come l’anticipazione della descrizione di Céline.