«All’università chi insegna a contratto lo fa per passione, non per soldi né per potere» afferma Luca Toselli. Con 1500 euro netti all’anno, tanto riceve dall’Università dell’Insubria a Como, «non si riesce a vivere». Bisogna fare altri lavori, come fanno milioni di freelance e precari in Italia. Il progettista multimediale (Bollati Boringhieri) è uno dei libri che ha scritto. Poi, Luca ha realizzato un sogno: creare la sezione dedicato al video dal museo del cinema di Torino. Oggi lavora anche come insegnante precario a scuola, iscritto in terza fascia. Ogni anno, a settembre, aspetta la chiamata dei presidi. D’estate percepisce il sussidio di disoccupazione. Cinquantuno anni, due figli, un’esperienza ventennale nell’insegnamento del cinema e della televisione negli atenei di Torino e Milano, Toselli è un lavoratore indipendente con un curriculum lungo una quaresima, apprezzamenti professionali, ma purtroppo nessuna tutela sociale. «Non ho vergogna a dire – aggiunge il docente – di avere chiesto un alloggio in cohousing a Torino a prezzi agevolati».

Da quando è stata istituita con la riforma Berlinguer-Zecchino, la figura del contrattista all’università è cambiata. Per la gran parte oggi è costituita da un esercito di lavoratori sottopagati che, secondo i dati forniti dalla Flc-Cgil, nel 2011 annoverava 42.649 membri. I docenti esterni si distinguono in tre categorie: c’è chi insegna per gli infermieri, i radiologi o i fisiatri; ci sono i liberi professionisti (come Toselli, ma anche Freccero, Santoro o Costanzo che certo non hanno i suoi problemi economici). Ci sono i ricercatori precari che sono costretti in alcuni casi a insegnare in cambio di una retribuzione simbolica (1 euro) per un corso in un semestre, gli esami e le tesi. Tutti hanno la stessa responsabilità legale di un professore ordinario. A seguito dei tagli Tremonti-Gelmini da 1,4 miliardi agli atenei, i corsi di laurea restano in piedi grazie a questi invisibili.

«All’università può succedere di parlare agli studenti, ma loro non riescono a distinguerti dai professori ordinari. Potrai anche essere il più bravo del mondo, ma se non sei legato ad una cordata accademica continuerai a insegnare a contratto». Insegnare a queste condizioni serve forse a far decollare le sorti – sempre più incerte in realtà – della professione? «Se fai il medico forse sì – risponde Toselli – ma nelle nostre discipline non conta molto». Lui resiste con quella maledetta passione all’insegnamento in un’università che si è «licealizzata» e ha trasformato gli studenti in «clienti». «Inizialmente la riforma voleva modellare la formazione sul modello del mercato, oggi è diventato un Far West. Sull’altare dei tagli sono state sacrificate almeno due generazioni tra docenti e ricercatori. Invece bisogna tornare a investire, partendo anche dai professori a contratto. Bisogna dare loro la possibilità di essere assunti, anche solo a tempo determinato».