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Professione: romanziere

Professione: romanziereLa Tokyo a colori del fotografo giapponese Daido Moriyama

Murakami Il racconto/riflessione di Murakami Haruki sulle varie forme che ha assunto per lui il dono di narrare: «Il mestiere dello scrittore», Einaudi

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 9 aprile 2017

«Non penso di essere qualcuno di speciale. Quando cammino per la strada non mi guarda nessuno, al ristorante di solito vengo accompagnato a uno dei tavoli peggiori. Se non avessi scritto romanzi, nessuno mi avrebbe notato. Avrei condotto un’esistenza ordinaria nel modo più ordinario. Io stesso, nella vita quotidiana, non mi ricordo quasi di esser uno scrittore». Tanta pacatezza e tanta misura poggiano su oltre trentacinque anni di affidabile mestiere: da così lungo tempo, ormai, Murakami Haruki è uno scrittore professionista. Che può affermare, per soprammercato, di non aver «mai conosciuto un periodo», in questi anni, «in cui non riuscisse a scrivere», di non sapere «cosa sia il “blocco dello scrittore”», senza per questo riconoscersi «un talento straripante». La spiegazione sembra essere nella sua capacità di auscultarsi e di assecondare i propri desideri: quando non ha voglia di scrivere, Murakami, semplicemente, non scrive. Non lavora su commissione e non ha fretta; sa attendere che il materiale si accumuli dentro di lui «come l’acqua dei ghiacciai, sciogliendosi, viene a colmare il bacino di una diga». L’immagine è cristallina, vitale e comunicativa, legata al naturale ciclo delle stagioni e attenta alla fisicità com’è, del resto, tutta la scrittura di Murakami. Ancora più affabile quando esprime le sue riflessioni sul proprio (e altrui) lavoro di romanziere, quando s’interroga sui suoi destinatari, quando rimedita la sua carriera fin dal libro d’esordio, il romanzo breve Ascolta la canzone del vento (in Vento & Flipper, traduzione di Antonietta Pastore, Einaudi, 2016).
Al nome di Murakami Haruki occorre associare un’ostinazione rara e tuttavia, per sua ammissione, «qualche talento per la scrittura». Al di là della formula per modestia riduttiva, il suo equilibrio, l’energia del corpo, e la capacità di concentrazione e di analisi appaiono altrettanto determinanti. Raccontare Il mestiere dello scrittore (traduzione di A. Pastore, Einaudi «Frontiere», pp. 189, € 18,00), il suo iter di narratore, per Murakami significa riconoscere i positivi effetti della perseveranza, del regolare lavoro alla scrivania e del quotidiano, complementare, allenamento fisico. E significa smontare mitizzazioni facili e romantiche, se non patetiche. Lo scrittore può andare a letto presto, e presto svegliarsi; può lavorare cinque o sei ore di seguito e correre ogni giorno per accrescere la propria energia. E può tenere questo ritmo, lontano dai clamori mediatici, dai lettori che chiedono autografi, dalle schermaglie più o meno sommerse dei premi letterari, e possibilmente dalle città convulse, per molti mesi.
Non serve (e non basta) fare gli eccentrici o ammantarsi di aura fittizia per farsi riconoscere e – ben più grave – per riconoscersi autori. Quando gestiva il suo locale a Tokyo, Murakami conduceva una vita ben più irregolare. Non ama parlare di politica, né di ideologia, eppure in questo atteggiamento, e nella chiarezza con cui vive il lavoro del romanziere nella più costante e routinaria delle attività, sembra lecito scorgere un orientamento sociale e ideologico. Scrivere, osservava già in quell’ottimo viatico alla sua scrittura che è L’arte di correre (traduzione di A. Pastore, Einaudi, 2009), è «una sfacchinata». Occorrono i «muscoli da lunga distanza», quelli che deve sviluppare chi voglia diventare un maratoneta. Le abitudini sane dovrebbero consentire all’autore di sostenere l’«attività malsana» che è lo scrivere. Se nell’Arte di correre Murakami si serviva di metafore che evidenziavano lo sforzo e la sfida interiore impliciti nella scrittura – «per me scrivere consiste nell’arrampicarmi su monti impervi, scalare pareti rocciose e al termine di una lunga lotta accanita, giungere in vetta. Vincere o perdere contro me stesso» –, nel Mestiere di scrivere tende a sottolineare la spontaneità dell’inclinazione e il piacere che può procurare: «non ho mai pensato che scrivere potesse essere una sofferenza. (…) Semplicemente penso che se scrivere romanzi non fosse piacevole, non avrebbe significato farlo. Considerare la scrittura una tribolazione è un’idea che non mi appartiene. Penso che fondamentalmente debba essere qualcosa che sgorga in modo spontaneo». E che non può prescindere, tuttavia, da un’applicazione costante, generosa nell’impiego del tempo, nel coinvolgimento emotivo e nella dedizione alle diverse fasi correttorie. Perché le opere create non siano «fragili, ancora umide, porose», occorre far «dormire un po’» il romanzo, lasciare che si sedimenti.
Il mestiere di scrivere è tanto un resoconto autobiografico, un racconto/riflessione sulla formazione intellettuale, sulle varie forme che ha assunto la «fortuna», il «dono» della scrittura, quanto una conversazione piacevole, un’esposizione affabile stesa per ascoltatori immaginari – i capitoli si presentano come possibili conferenze non ancora pronunciate in pubblico. A volte con tanto di consigli: «guardatevi attorno con attenzione (…). Il mondo ci sembra privo di valore, ma in realtà è pieno di minerali affascinanti ed enigmatici».
Gli aspetti più personali toccati da Murakami vanno dal racconto di come è diventato romanziere – scrivendo in inglese e poi traducendo in giapponese per inventare «uno stile neutro, privo di abbellimenti superflui» –, al suo rapporto con i premi letterari, il Gunzo per esordienti, che gli ha cambiato il destino, e l’Akutagawa mai ottenuto; dalla predilezione per la lettura, voracissima e sempre preferita agli studi scolastici, alle tecniche narrative – vent’anni per passare dalla prima persona alla terza, dalla dilatazione dell’io alla possibilità di diventare «altri», conseguita attraverso la mediazione sperimentale di Kafka sulla spiaggia (traduzione di Giorgio Amitrano, Einaudi, 2008), scritto metà in prima, metà in terza persona.
Se i lettori affezionati conoscevano già, per averla letta nell’introduzione a Vento & Flipper, l’epifania sportiva all’origine del romanziere e la scrittura notturna sul tavolo da cucina, del tutto nuove sono alcune interessanti opinioni sul sistema educativo giapponese, «formare individui con un carattere “da cane”», se non «“da pecora”, gente che si lasci condurre in massa», o sull’«aggressività» che si trova al cuore del sistema sociale da cui è derivato l’incidente di Fukushima.
Riflette sulle critiche subite, Murakami, ma se ne mantiene distante, comunica piuttosto un senso di gratitudine, sia per il forte legame con i suoi lettori, cui spera di dare «un po’ di piacere e qualche emozione», e che valgono più di qualsiasi premio letterario, sia per la possibilità di evolvere e rinnovarsi anche a cinquanta o sessant’anni, «cosa magnifica nella professione di scrittore», peculiare, «tutto il contrario degli sportivi». Ma lo stupore dei trentacinque anni di scrittura è garantito dal corpo, dal«movimento fisico» delle mani.
«A trentatré anni io ho iniziato la mia vita di corridore, e finalmente mi sono messo a scrivere sul serio», affermava nell’Arte di correre: oggi, Il mestiere di scrittore è un testo a quel libro affatto complementare, composto di una medesima sostanza, e speculare.
I due libri costituiscono un dittico di cui in ipotesi, in potenza, sarebbe anche pensabile incrociare i titoli: Il mestiere di correre e L’arte di scrivere. Ma il fatto che scrivere sia un mestiere e correre un’arte la dice più lunga, più ricca – e più precisa – di qualsiasi autoptica indagine, e di qualsiasi altra dichiarazione d’autore. I libri sono un prodotto (anche commerciale) di resistenza, di fiato. Corsa e scrittura sono davvero inscindibili, e in reciproco rapporto di cortesia sono anche, idealmente, gratuità e compenso; se c’è straniamento è comunque garbato, educato alla discrezione, e lo sguardo che Murakami rivolge su di sé, incrociando i termini, rivela sempre giusto, ponderato distacco.

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