L’ospedale ha corsie di cui non si vede la fine, come se anche in uno spazio chiuso le distanze, per forza di cose in Cina, dovessero essere infinite, almeno in apparenza. Fuori l’edificio sono immancabili le bancarelle che vendono prodotti per la prima colazione: offrono piccoli panini che avvolgono uova e un prosciutto cotto denso e spesso. Nel corridoio che porta al reparto “internazionale”, alle otto del mattino c’è già un via vai infernale, con urla e schiamazzi. I pazienti sembrano avere tutti lo stesso pigiama, mentre nel padiglione adibito alla prenotazione delle visite, la folla si va gonfiando, come un pallone aerostatico pronto a prendere il volo. Il primario del reparto mi guarda come se venissi da Marte, quando, dopo alcuni convenevoli, racconto le peripezie di alcuni genetisti italiani, che a detta loro, stanno in Italia, ma “sembra di essere in Iran”.

In Cina, ad esempio, tutto quanto è genetica è finanziato dallo stato. Anzi: mi viene posta di fronte l’evidenza del caso BGI, riportato in questi giorni anche dal Financial Times, ovvero il Beijing Genomics Institute, il più importante istituto al mondo in fatto di sequenze genetiche. Nel 2010, con l’aiuto di 1,58 miliardi dollari di credito dalla China Development Bank, BGI ha acquistato 128 macchine di sequenziamento del DNA per circa 500mila dollari l’una. Oggi, secondo i dati di Technology Review, possiede 156 sequenziatori di diversi produttori e rappresenta circa il 20 percento di tutti i dati sul DNA prodotti a livello globale. La BGI impiega 4mila persone, un migliaio solo nella sua divisione bioinformatica. I dipendenti hanno in media 27 anni e guadagnano 1500 dollari al mese. “Arriverà dalla Cina, il rimedio all’autismo?” si chiede il Financial Times, ricordando come la fama dell’ex Celeste impero sia ovunque associata all’arte di copiare, più che inventare?

Eppure: Weibo, il Twitter locale realizzato da Sina, oltre 300 milioni di utenti, Wechat, altri 300 milioni di utenti, (si tratta di un sistema di instant messaging vocale, che secondo gli esperti soppianterà Skype e i telefonini appena diventerà mondiale), per non parlare dell’innovazione di Alibaba, che ha soppiantato Ebay, o Baidu numero uno, altro che Google.

O la ricerca medica, o Haier, Huawei, ZTE o i quindici miliardi di dollari per lo sviluppo della green economy. O ancora i brevetti: nel 2010 la Cina ha prodotto 320mila brevetti (invenzioni, moduli di utilità o design industriale). Per il 2015 l’obiettivo è arrivare a 2 milioni, nel 2020 a 4 milioni. Oggi in Cina vengono prodotti 228 brevetti ogni milione di abitanti. Nel 2015 saranno 700: in Italia, attualmente, sono 133. Perfino i carcerati cinesi, se procedono alla registrazione di un brevetto, hanno uno sconto di pena. Un paese, simultaneamente, e con il sostegno dello stato, è impegnato in una corsa senza limiti: concepire un passaggio epocale, quello dal made in China, al Designed in China. Il desiderio, che i geopolitici racchiudono nella strategica parola di soft power, è la creazione di una nuova ontologia cinese, creativa, innovativa. Come sarà l’uomo cinese, che rappresenterà la seconda, e dal 2020 prima, potenza economica del mondo? E’ questo l’obiettivo del governo cinese: sarà, dovrà essere, vorrebbe essere, creativo, giovane, talentuoso. D’altronde, ghigna il medico, abbiamo inventato tante cose in passato, perché non tornare a farlo?

Si tratta di un meccanismo, naturalmente, che non nasce nelle strade, o in pertugi e anfratti sottratti allo stato, al potere, ma che arriva dall’alto. Si cercano spesso fenomeni grass root in Cina (non che manchino, ma sono per lo più culturali, associati a percorsi talvolta tortuosi, per adepti, introvabili ai più, che poi guadagnano un loro spazio pubblico solo quando ancorano al proprio uncino concettuale qualche papavero del Partito), e spesso ci si stupisce quando invece il meccanismo è inverso: dall’alto verso il basso.

E’ lo stato in Cina, sotto le sembianze del Partito comunista, ad aver messo all’ordine del giorno entro il 2015 le basi della “produzione culturale” cinese, per trasformare la fabbrica del mondo in una società della conoscenza e dell’innovazione. Propaganda? Statalismo? Forse ci si dimentica che la Silicon Valley è oggi, anni dopo, nella storia, grazie ai finanziamenti statali e che – ad esempio secondo l’opinione di Manuel Castells – il modo in cui la burocrazia favorisce o meno l’industria culturale, crea i gap tra mondi. E Castells fa proprio l’esempio dell’Unione Sovietica, incapace di sostenere l’innovazione, prima ancora che cadere per motivi squisitamente politici.

E in Cina, il caso dell’Unione Sovietica è studiato più di ogni altro. La soluzione è fin troppo esplicita: il Partito Comunista sarà in grado di trainare questo processo o finirà per risultare il tappo, con le conseguenze che i potenti di Pechino ben conoscono? E allora, con la scusa del soft power, con la necessità di modificare la propria immagine all’estero, un pizzico di amor proprio e una spruzzata di nazionalismo, anche del più becero, lo Stato ha deciso che l’obiettivo non è più la crescita. E che in un’ipotetica filiera della produzione, il valore aggiunto, anche economico, non sta nella produzione a basso costo, bensì nella creazione e nei servizi. E’ il primo mondo, cui si affaccia da tempo ormai la Cina, tentando di nascondere e rimettere in carreggiata i suoi tanti “terzi mondi” interni.

Perché, si sono chiesti con insistenza i media cinesi qualche anno fa, sono gli Stati Uniti e non la Cina ad aver prodotto un film, KungFu Panda, che utilizza due “stereotipi” cinesi, come l’arte marziale e i panda? Perché in Cina c’è la censura, ha risposto qualcuno, come ad esempio un regista incaricato di girare un film che celebrasse la Cina durante l’Expo di Shanghai nel 2010: talmente tanti i vincoli che ha rinunciato. Perché non c’è un reale investimento, hanno risposto altri, trovando linfa nella campagna di “riforma culturale” lanciata poco dopo dal Partito Comunista cinese. Si tratta di un processo finalizzato al quinquennio 2010 – 2015, ma già da dieci anni la Cina sta lavorando al riguardo, snocciolando al solito dati su dati.

La Cina ha prodotto 558 lungometraggi nel 2012 rispetto ai 140 del 2003, ha oltre 9mila schermi cinematografici, 43 siti culturali presso le Nazioni Unite, il terzo più alto numero al mondo, 600mila sale di lettura rurali, oltre duemila musei che non fanno pagare l’ingresso. L’anno scorso, ha pubblicato 370mila libri, che stando a quanto dicono i funzionari cinesi è il numero di pubblicazioni più elevato al mondo. La tv di stato, ha 249 milioni di spettatori in 171 paesi. Parole, dati: ora la prova della realtà, da ottenere nei prossimi due anni.