Un airone cenerino volando sulle risaie potrebbe accorgersi che, da qualche anno, il paesaggio è cambiato. Il reticolo geometrico di acque e spighe che va da Vercelli a Novara fino a Pavia non è più un unico monolite dai tempi e dai colori standardizzati. Almeno in parte. La monocultura risicola, vero marchio di fabbrica di questo territorio negli ultimi quaranta-cinquant’anni, incomincia a essere intervallata da altre sfumature come in un immaginario quadro di Paul Klee. Leguminose, graminacee e, ovviamente, riso.
Ci sono agricoltori che hanno fatto un balzo nel passato per ovviare all’insostenibilità del presente e pensare meglio al futuro: hanno riscoperto la rotazione, il sovescio, abbandonato la chimica e sperimentato nuovi metodi di coltivazione. Proprio in quel settore risicolo che, nella ricca Pianura padana, si era strutturato come un’immensa catena di montaggio emancipandosi da un atavico rapporto con l’ambiente. Si doveva produrre a più non posso: un sistema, però, non più sostenibile.

«Produrre di più per sfamare il mondo è una favola molto cara alle multinazionali, nei Paesi che producono più cibo è, invece, altissimo lo spreco; il cibo va prodotto dove si consuma. È venuto il momento di costruire un ambiente sano e dove si vive bene, l’agricoltore, d’altronde, è il primo politico perché decide il destino del proprio territorio». Lo sostiene Paolo Mosca, 35 anni di Crescentino, in provincia di Vercelli, figlio di risicoltori, che ha provato a cambiare il paradigma in cerca di una maggiore sostenibilità.
Il primo passaggio è stato l’approdo a un’agricoltura conservativa, eliminando la lavorazione intensiva del suolo. «È un’idea nata da un viaggio che ho fatto nel 2007 in Brasile, nel Mato Grosso, al ritorno ho deciso di smettere di arare e ho scelto di mantenere il terreno coperto con colture di cover crop e di sperimentare la rotazione in grado di rompere il ciclo degli infestanti». Poi, il successivo step, l’abbandono dei fertilizzanti e l’abbraccio del biologico con l’approdo all’agricoltura bioconservativa su cui si basa la sua azienda. La produzione si riduce nelle quantità, ma la qualità aumenta e migliora l’ambiente circostante. Mosca, quando era nel direttivo dell’Anga (i giovani di Confagricoltura), si era esposto contro il «finto bio». Una scelta difficile e coraggiosa, amplificata in tv da Report. Uno scossone, con tanto di denunce e sequestri, che però aprì gli occhi a qualcuno. Ora, un suo campo, dove coltiva veccia, loietto e triticale, è pilota all’interno del progetto Riso biosystems seguito dal Crea (Consiglio per la ricerca in agricoltura), università di Torino e di Milano. La coltivazione di leguminose, che azotano il terreno, e delle graminacee, che fanno biomassa, serve, quando viene introdotta l’acqua, a innescare la fermentazione che fa da erbicida naturale nei confronti delle piante infestanti. La semina del riso avviene su sodo o in asciutta.

Attraversa i terreni della sua cascina, salta i fossati, e, nel frattempo, non smette di aggiornarsi: «Il miglior investimento per un agricoltore – spiega Mosca – è mandare a scuola il proprio figlio. Non voglio smarrire la capacità inventiva che avevano i nostri nonni». E sottolinea: «Dobbiamo emanciparci dalla schiavitù delle multinazionali, che magari con i diserbanti come il glifosato sembrano risolvere il problema dell’oggi ma ne posticipano e creano molti futuri».

Pochi chilometri più a sud, Beppe Vasino, stesso comune ma diversa frazione (Rabeto), ha deciso di dire addio alla monocoltura quasi quindici anni fa: «È stato un errore, c’è stato un tempo in cui si standardizzava e il riso rendeva, non c’era la concorrenza asiatica e non ti facevi domande. Gli equilibri sarebbero presto saltati. Le multinazionali ti imbonivano e ogni volta che un prodotto non funzionava dicevano che era colpa tua. Ho deciso di riconquistare la mia autonomia, di selezionare i semi, di tornare a essere padrone del mio destino». Anche lui ha guardato al passato. «I nostri vecchi cambiavano colture e toglievano le erbacce a mano. Nell’azienda agricola classica, quella con gli animali, la rotazione era utile per dare cibo agli animali perché non mangiavano riso. Ha vinto però quella iperspecializzata nel riso, ma la natura non la freghi. Ora la mia azienda è tutta in rotazione, pratico il sovescio con loietto, colza, pisello proteico, soia, ed è divisa tra biologico e convenzionale. Questo cambio di sistema ha portato all’introduzione di nuove attrezzature che devo inventarmi. In 30 anni abbiamo perso conoscenza di millenni, non abbiamo più tempo da perdere».

A Rovasenda, nel territorio della baraggia, c’è chi pratica un metodo ancora più radicale, la policoltura Ma-Pi, ispirata alle idee sulla macrobiotica di Mario Pianesi. Si tratta della famiglia Stocchi e Mussa, azienda «Una Garlanda», che dal 2001 sperimenta un’agricoltura totalmente naturale. «All’inizio è stato difficile perché, a differenza dei nostri antenati, non conoscevamo la nostra terra, non l’avevamo mai rispettata, osservata e non avevamo mai compreso i suoi cicli». Il loro metodo prevede «l’utilizzo di semi non ibridi, possibilmente di varietà antiche e autoriprodotte in azienda; la piantumazione di siepi e filari di alberi, arbusti, alberi da frutto, sugli argini e all’interno dei campi; la rotazione di diverse colture sullo stesso terreno; il totale abbandono di sostanze estranee all’ambiente di coltivazione, come concimi, diserbi, fungicidi; di lasciare una parte dei campi per permettere l’autoriproduzione spontanea dei semi e l’abbandono della pratica di bruciatura dei residui colturali dopo la raccolta». Le produzioni in aumento dimostrerebbero la validità di questa scelta agronomica rispettosa della terra e del cittadino. La famiglia Stocchi e Mussa è arrivata, infine, a una conclusione strutturale: «L’esperienza di questi anni ci ha fatto capire che non c’è agricoltura senza l’ambiente. È quindi chiaro ed evidente che se si vuole proseguire a fare i contadini è fondamentale tutelare gli ecosistemi».