Corrono le esportazioni, frena la produzione industriale. È quanto si evince dagli ultimi due report dell’Istat sullo stato dell’economia italiana.

A luglio, l’istituto di statistica ha stimato una diminuzione dell’indice della produzione industriale dell’1,8% rispetto al mese precedente e dell’1,3% rispetto all’anno scorso (la prima volta dal 2016). Un passo indietro che riguarda, principalmente, i beni di consumo, compresi quelli alimentari (molto marcata la flessione per i beni durevoli: -4,8% da giugno, -7,2% rispetto all’anno scorso).

A questi dati, però, fanno da contraltare quelli relativi alle esportazioni delle regioni italiane. Nel periodo gennaio-giugno 2018 la crescita tendenziale dell’export, ovvero quella registrata rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, è stata del 9,3% per le Isole, del 5,9% per il Nord-est, del 4,6% per il Mezzogiorno e del 4% per il Nord-ovest. Più modesta quella stimata per le regioni centrali, che non è arrivata all’1%.

Sorprendenti i dati relativi ad alcune regioni del Mezzogiorno, che si sono rivelate tra le più dinamiche del panorama nazionale nei primi sei mesi dell’anno. Al primo posto la Calabria, il Molise e la Sicilia, con la prima che ha fatto registrare un balzo in avanti, addirittura, del 38,7% (il vero motore rimangono però le province lombarde).

Italia sempre più esportatrice netta, insomma, con un surplus della bilancia commerciale che balla da alcuni anni, ormai, sul crinale dei 50 miliardi di euro (nel 2017 le imprese italiane hanno esportato merci per un valore di 448,1 miliardi di euro, mentre le nostre importazioni si sono fermate a 400,6 miliardi). Per rendere l’idea di che grandezze parliamo, basta ricordare che l’anno scorso tutto l’attivo commerciale dell’eurozona è stato di 238 miliardi, con tre paesi sul podio: Germania, Olanda e Italia (così anche nel 2016). E, stando alle cifre dell’Istat relative al primo semestre, non è escluso che il 2018 possa chiudersi, per il nostro Paese, con un nuovo record.

Ma come, le esportazioni volano e la produzione industriale arretra? Come si spiega questo dato? Semplice: gli italiani spendono di meno e i volumi della produzione industriale non possono essere confermati dalla sola domanda estera. Spiegazione ricavabile dalle stesse tabelle dell’istituto di statistica riguardanti il commercio al dettaglio nello stesso periodo di riferimento (-0,6% in valore e 1,8% in volume rispetto al 2017).

Conta certamente il calo dell’indice di fiducia degli italiani, ma soprattutto la condizione materiale di vita di gran parte di essi. D’altronde, che il nostro Paese «brilli» per il più alto numero di poveri in Europa (in valore assoluto) e per l’inadeguatezza di salari, stipendi e pensioni, è risaputo (siamo diventati un po’ più tedeschi per l’export e un po’ più rumeni per livelli di povertà). E’ così da anni. Alcuni dati recenti, nondimeno, aiutano a capire meglio anche certi fenomeni congiunturali, come quello che stiamo cercando di analizzare in questo articolo.

Lo scorso mese di agosto, l’Ocse ha pubblicato uno studio sull’andamento dei redditi nei paesi membri. Risultato: nel primo trimestre di quest’anno il reddito reale (al netto dell’inflazione) delle famiglie è aumentato in tutta l’area di riferimento, tranne che in Francia e in Italia (con un fortissimo divario tra uomini e donne), che, invece, hanno fatto registrare un’ulteriore contrazione dello stesso.

Tutto torna. L’Italia continua ad esportare grazie al basso costo del lavoro (la forbice è ancora più vistosa nel Mezzogiorno), ma bassi salari e pensioni da fame deprimono la domanda interna, con risultati tutt’altro che rosei sul versante della crescita (e della sostenibilità delle finanze pubbliche). Ne risente la produzione industriale (manifatturiero), ma non i profitti delle imprese internazionalizzate (soffrono invece le imprese, soprattutto piccole e medie, che dipendono dalla sola domanda interna).

Nel complesso, parliamo di un Paese dove, stando ai dati Ocse, il 10% più ricco detiene il 30% del reddito disponibile, mentre il 20% più povero deve accontentarsi di appena lo 0,3% dello stesso. Accanto a politiche salariali espansive, servirebbe una patrimoniale, una tassa sulla ricchezza, per combattere le disuguaglianze e spingere sulla domanda interna. Ma il governo ha deciso: bisogna tagliare le tasse ai ricchi e alle imprese. Anche alle imprese che, esportando, hanno fatto grandi profitti negli ultimi anni.