Una critica, anche severa, è solo un parere, anche se viene da un nome pesante come quello di Romano Prodi. Ma se viene ripetuta ogni giorno con toni sempre più accesi diventa qualcosa di più. Se poi le stesse critiche vengono riprese e rilanciate da un intero stuolo di ex dirigenti, più o meno tutto lo stato maggiore dell’antico Ulivo, il sospetto che non si tratti solo di pareri in libertà ma di una strategia diventa per forza corposo.

Ieri sul Fatto campeggiava un Prodi impegnato a sparare a palle incatenate contro la legge elettorale e il Pd che la sostiene. «Con questa legge ci si obbliga a cercare alleanze tra partiti con diversità inconciliabili», esordisce il professore forse dimenticando che già il governo Letta aveva trovato l’ostacolo del tutto sormontabile. Il punto chiave però è un altro. Ove l’alleanza avesse luogo a procedere ci si può «rimettere in cammino per spostarsi». Fuor di metafora prendere le distanze da quel Pd a cui Prodi ancora si dice vicino.

Proprio nelle stesse ore una prodiana di ferro, Rosi Bindi, sviluppava riflessioni simili. La legge elettorale, dice, «è lo spartiacque della mutazione del Pd». In un altro passo però definisce più drasticamente il ritorno al proporzionale «la fine del Pd» e, se non annuncia l’addio, lo lascia però scorgere. Negli ultimi tre giorni la stessa musica la avevano suonata Walter Veltroni ed Enrico Letta, quest’ultimo ventilando addirittura la possibilità di non votare nemmeno per il Pd.
Un simile fuoco concentrico può essere frutto di mera coincidenza. Però non è facile, soprattutto trattandosi di politici non proprio di primo pelo. Del resto motivazioni praticamente identiche avevano adoperato Giuliano Pisapia e parecchi esponenti dell’Mdp per spiegare la loro contrarietà a questa legge elettorale, non solo nei particolari come l’assenza delle preferenze o la mancanza del voto disgiunto, ma soprattutto nell’impianto di base.

Così forse non sono solo favole quelle che prevedono uno spostamento dell’intero vecchio gruppo dirigente dell’Ulivo dalla «vicinanza» o dalla internità al Pd alla prossimità con il Campo che Pisapia si accinge a varare. Nessuna candidatura, questo no, ma una benedizione ufficiale sì. Pisapia, dal canto suo, ha già spiegato innumerevoli volte che lui vuole resuscitare il centrosinistra di cui i dolenti di cui sopra lamentano la scomparsa. Certo, sarebbero necessari un paio di passi ulteriori: un pronunciamento aperto dell’ex sindaco di Milano a favore di un futuro ritorno del maggioritario, dal momento che i due termini, «centrosinistra» e «maggioritario» per Prodi e forse non solo per lui sono sinonimi, e poi un richiamo esplicito al ruolo che i dirigenti dell’Ulivo hanno avuto e potrebbero ancora avere. In sintesi, visto che Renzi si ostina sulla cattiva strada, si tratterebbe di diseredarlo ufficialmente. E i nuovi eredi dovrebbero limitarsi ad accettare ufficialmente l’eredità.