«Sento di dovere rendere pubblico il mio sì, nella speranza che questo giovi al rafforzamento della nostre regole democratiche soprattutto attraverso la riforma della legge elettorale». Più che la politica poterono il rimpianto, forse il rancore. Alla fine di un lungo tentennare Romano Prodi si schiera con il Sì.

È meno peggio, scrive in una nota, una regola che chissà quante volte si è sentito rinfacciare per sé: «Mi viene in mente mia madre che, quando da bambino cercavo di volere troppo, mi guardava e diceva: ’Romano, ricordati che nella vita è meglio succhiare un osso che un bastone’». O forse è una scelta fra i tanti nemici della storia sua (e del paese): il professore salva quelli più recenti e punisce i più antichi, come certi anziani soldati che perdono la memoria dell’ultima battaglia e conservano invece quella della gioventù. Ieri il fondatore dell’Ulivo ha deciso di dare una mano a Renzi. Che gioisce di tanta grazia insperata e immeritata: «Fatemi dire grazie a Prodi che ha detto che voterà sì, pur non condividendo tutto, ma ha riconosciuto che ci sono delle emergenze per il paese», dice da Ancona. Esultano anche tanti renziani.

renzi giuda prodi a

Fra loro ci sono i 101, almeno alcuni, che non da soli quel 19 aprile 2013 affossarono la sua candidatura al Colle. A pochi minuti da quella votazione fu proprio Renzi, allora sindaco di Firenze, a metterci su la lapide: «La candidatura di Prodi non c’è più», disse pochi minuti dopo. L’allora portavoce di Bersani, Chiara Geloni, non resiste e twitta De André: «I giornali in una mano e nell’altra il tuo destino, camminavi fianco a fianco al tuo assassino». Il professore ha perdonato quelle pugnalate. E quelle successive: perché in tutta la sua carriera fino a ieri Renzi ha usato le parole «Ulivo» e «Unione» come sinonimo di ferrivecchi da rottamare a favore della opposta «vocazione maggioritaria» (copyright Veltroni: quello che nel 2007 con il suo «Il Pd correrà solo» preparò la morte prematura del secondo governo Prodi).

I renziani e i pasdaràn del Sì, sempre fino a ieri, per questo hanno sbeffeggiato il professore. Basta fare una ricerca su google per non perdere la memoria. Prodi perdona tutto a questi boriosi ragazzi. Invece non perdona nulla a quelli che per primi, crede, tirarono giù nel ’98 il primo governo di centrosinistra.

Ma la riforma non gli piace. Con la nota che invia alle agenzie si iscrive all’elenco triste di quelli si turano il naso. Il suo è un sì, scrive, «anche se le riforme proposte non hanno la profondità e la chiarezza necessarie». Anche se serve una nuova legge elettorale. Anche se, se si voleva un voto sul merito, «lo si sarebbe dovuto separare dalla sorte del governo». Anche se il confronto «ha per mesi esaltato le debolezze esistenti del nostro paese e ne ha inutilmente inventate delle non esistenti. Un dibattito che ci ha indebolito all’estero». Anche se «tale confronto è diventato una rissa sulla stabilità, inutilmente messa in gioco da un’improvvida sfida», e il risultato del referendum, «si trasformerà in un periodo (speriamo non troppo lungo) di inutile e dannosa turbolenza». Insomma: una serie di disastri e errori politici di cui Renzi è il principale responsabile. Ma lui vota Sì. E perché? Il passaggio chiave del sua ragionamento è quello che rivela la vera ragione di questa scelta.

Riguarda la sua vicenda personale e politica, quella dell’Ulivo, ovvero «il tentativo di dare a questo paese una democrazia finalmente efficiente e governante. C’è chi ha voluto ignorare e persino negare quella storia, come se le cose cominciassero sempre da capo, con una leadership esclusiva, solitaria ed escludente. E c’è chi ha poi strumentalizzato quella storia rivendicando a sé il disegno che aveva contrastato». E non è Renzi, quello che ha detto «mai più coalizioni» come le sue. Prodi non ha digerito, non ha perdonato, forse neanche ancora capito perché è caduto nel ’98. Allude a D’Alema, l’avversario interno con cui – non solo lui – ha identificato tutte le mani da cui è stato pugnalato. Grazie al quale ha rimosso i suoi errori, che furono tantissimi. Alcuni perfino maldestri di calcolo, come quello poi confessato da Arturo Parisi. È storia vecchia. D’Alema non replica: «Non voglio polemizzare con Prodi». Il professore preferisce il nuovo carnefice (politico) al (presunto) vecchio.

Non gli basta neanche che Renzi tratti la ’sua’ Unione europa, come uno spot elettorale, ora contro ora a favore, con la disinvoltura di un apprendista stregone, con le parole della destra berlusconiana che per tutti gli anni 90 lo ha contestato. Del resto in Europa nessuno prende sul serio le sue intemperanze, se ormai anche il falco tedesco Schauble si è schierato con il Sì («Segno che non teme molto Renzi», ironizza Alfredo D’Attorre).

Il passato non passa, almeno nella sinistra italiana, è la conclusione di questa storia. Fra i più delusi ci sono gli ultimi giapponesi della memoria dell’Ulivo, Bersani («Io non mi turo il naso e non lascio il No alla destra») e Civati, che fino all’ultimo aveva chiesto al professore di schierarsi per il No. I più entusiasti sono gli ulivisti del Sì che, come Vannino Chiti, esultano per la benedizione: «Tra la riforma costituzionale di oggi e le impostazioni programmatiche dell’Ulivo e poi dell’Unione c’è una sostanziale e evidente continuità». Ma come, non era quella «coalizione rissosa e instabile» che si voleva seppellire grazie alla vocazione maggioritaria e il premio di maggioranza alla lista? Anche Casini allarga le braccia al professore, come mai fatto nella sua lunga vita di democristiano: «Il suo un atto di coraggio». Solo i grillini francamente se ne infischiano. Anzi per Di Battista «Prodi è molto legato a Goldman Sachs quindi non mi sorprende che voti Sì».