Il processo di pace tra governo afgano e talebani è ormai definitivamente deragliato su un binario morto. E i morti, accumulatisi in un week end di sangue da venerdi scorso a ieri mattina, sono stati il colpo di grazia in un contesto di confusione e sospetti seguiti alla notizia della morte di mullah Omar.

L’ultimo attentato (bilancio provvisorio 5 morti e 16 feriti) è un autokamikaze all’ingresso del viale che porta all’aeroporto civile di Kabul. L’auto si lancia verso l’ultimo check point che si trova sul lato di una larga piazza circolare forse mirando, come rivendicano i talebani, un convoglio. Esplode e distrugge chissà se il suo vero obiettivo e comunque falcia gli uomini della sicurezza. E ovviamente i civili che passano di lì in un’ora trafficata: mezzogiorno prima della partenza del volo per Dubai sempre molto affollato. La rivendicazione arriva poco dopo. Ma è solo l’ultimo episodio di una lunga serie iniziata all’una di venerdi, quando un camion pieno di esplosivo salta in aria in un quartiere residenziale.

Muoiono soltanto civili, portati via nel sonno. Poi, nel pomeriggio, è la volta di una scuola di cadetti e, in serata, di una caserma dove ci sono militari americani. La giornata si conclude con un bilancio di oltre 50 vittime. I feriti – molti ricoverati all’ospedale di Emergency – sono centinaia. I talebani rivendicano gli ultimi due attentati (tre con quello di ieri) ma non la strage col camion bomba che ha aperto un cratere dove ci stanno 5 uomini in piedi.

Il presidente Ghani, appena rientrato da un’operazione in Germania, è sconvolto. Ma è soprattutto la sua linea di credito verso il Pakistan, aperta non senza difficoltà nei mesi scorsi, a essere sconvolta. Già in calo di consensi, il presidente, dopo l’ennesimo attentato, va in televisione, soprattutto per puntare il dito sul possibile mandante. E, seppur indirettamente ma nemmeno troppo, l’indice è puntato su Islamabad. È da lì, dice il capo di stato afgano, che vengono i kamikaze. È lì che vi sono i campi di addestramento, le armi, i rifugi sicuri per chi attenta alla vita degli afgani.

A seguire spiega che di processo di pace non si parla più o non nel modo con cui si era avviato e cioè sotto l’egida del Pakistan che aveva ospitato il primo round negoziale. No, dice Ghani, ora la pace si può fare ma solo tra afgani, senza padrini ingombranti. Lascia aperta una porta: se Islamabad è davvero contro i terroristi, lo dimostri. Una porta che ormai rischia di venire chiusa a tempo indeterminato anche per le spinte di Abdullah, il capo dell’esecutivo, che ieri ha reiterato i suoi dubbi, già espressi da tempo, sulle intenzioni di un Paese di cui non si fida e che non considera amico.

A Kabul intanto crescono paura, confusione, tensione. E rabbia. Nei talk show televisivi si spara a zero sui pachistani, sugli americani che hanno promesso protezione ma non sanno garantirla, sull’accordo firmato da Ghani con gli Usa, alleato di cui diffidare. Qualcuno evoca anche Karzai: lui si che sapeva cantarle chiare, a Washington e a Islamabad. Ghani è stretto in questo fuoco incrociato, in un gioco al massacro – di persone e negoziato – cui non sembrano estranei i servizi segreti (almeno nel caso della strage non rivendicata) chissà di quale Paese. E in un quadro confuso, dove i talebani litigano tra loro e forse giocano al rialzo sulla pelle soprattutto dei cittadini della capitale per dimostrare all’altra fazione qual è la più forte, la guerra continua. Più sporca di prima.