«Quello sguardo rimase impresso nella mia memoria e per questo vengo a testimoniare». La testimonianza è quella di Beatriz Cristina Fynn Fernandez, uruguayana. Una deposizione centrale al processo Condor, le cui udienze riprendono oggi e domani nell’aula bunker di Rebibbia, a Roma. Lo sguardo che la testimone non ha più potuto dimenticare è quello di Jorge Troccoli, allora responsabile del servizio di intelligence della Marina militare uruguayana. Siamo nel 1977, in piena dittatura militare (1973-’85). Nel Sudamerica di allora dominano i dittatori cresciuti alla Scuola delle Americhe. Tutti hanno stilato un patto criminale denominato Piano Condor, voluto dalla Cia. Consente di scambiarsi i favori oltrefrontiera, di eliminare gli oppositori ovunque si trovino. Sotto gli artigli del Condor cadono anche molti cittadini di origine italiana, o figli e nipoti di emigranti. Si calcola siano circa un migliaio.

Il piano si concretizza con la complicità di fascisti e servizi segreti italiani, e della P2 di Licio Gelli. Per questo, grazie all’attività delle organizzazioni per i diritti umani – in primo luogo alla 24 marzo onlus e a Jorge Ithurburu-, il 12 febbraio del 2015 ha preso il via a Rebibbia il processo Condor. Imputati, alti comandi militari, politici e uomini dei servizi segreti attivi allora nella rete criminale sudamericana: rinviati a giudizio nell’inchiesta messa in moto nel 1999 dal procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo. Un processo articolato sulla base delle denunce presentate dai parenti di 42 persone sequestrate e uccise in Argentina, in Bolivia, in Cile, Perù e Uruguay tra il 1973 e il 1980. Crimini che riguardano anche il rapimento di bambini: figli di oppositori, sottratti alle madri uccise dai militari e dati a famiglie complici. Un tema emerso con forza anche nel corso delle udienze romane e documentato di recente nel libro di Federico Tulli, Figli rubati, edito da l’Asino d’oro. Secondo le Nonne argentine di Plaza de Mayo, in Italia potrebbero esserci circa 70 «figli rubati», ancora da ritrovare.

Il 6 dicembre, Cristina Fernandez viene arrestata sul posto di lavoro, davanti ai suoi colleghi del Centro cooperativista uruguayo. A portarla via è «un individuo di sesso maschile, vestito come i militanti dell’epoca: un paio di jeans, camicia scozzese a quadri e una giacca di pelle». La prende per un braccio e la getta in un furgoncino, dove si trovano altri due uomini. Adesso Cristina ha un cappuccio in testa, è a terra e ha una pistola puntata alla nuca, viene insultata e minacciata. La portano in un luogo di tortura, e per lei comincia l’inferno, che racconta così: «Mi appesero a dei ganci, mi misero dei morsetti elettrici sui capezzoli, nella vagina, sulle dita dei piedi e iniziarono a interrogarmi». Durante la tortura, la donna riconosce la voce di chi l’ha arrestata e nei giorni successivi vede da sotto la benda l’uniforme dei Fucilieri navali.

Troccoli è l’unico accusato non contumace. Ha la doppia nazionalità, ha vissuto tranquillamente in Italia da pensionato, finché non è stato scoperto. Dopo essere stato arrestato, il 23 aprile del 2008, è stato però rimesso in libertà. L’anno dopo, l’Italia ha negato la sua estradizione in Uruguay per vizi procedurali. Quando è stato rinviato a giudizio, si è presentato a deporre, respingendo il merito delle accuse. Troccoli – che a soli 29 anni era a capo della Fusna, una sezione del servizio di intelligence addetta allo scambio di informazioni nell’ambito del Condor – ha parlato di quelle vicende in un libro del 1998, L’ira del Leviatano.

In quell’occasione dette diverse interviste per giustificare le scelte di quel periodo e la lotta scatenata da Washington al «pericolo rosso». Fu allora che Cristina Fernandez lo riconobbe. Ma non sarà la sola a deporre alle udienze contro di lui. A testimoniare contro l’ex militare vi saranno anche Rosa Barreix e la ex procuratrice Mirtha Guianze, dell’Istituto nazionale per i diritti umani, in prima fila nella battaglia per il riscatto della memoria in Uruguay. Domani depongono altre parti civili: Nestor Gomez Rosano, fratello di Celica – una militante argentina che lavorava per l’agenzia Telam, rapita e portata a morire in Uruguay nell’ambito del Condor; Angel Gallero e Washington Rodriguez, un sopravvissuto uruguayano. Insieme all’avvocato Andrea Speranzoni – legale di parte civile – e a Jorge Ithurburu, domani alle 19 saranno anche alla fondazione Basso, nell’incontro “Uruguay: dal Condor ai Diritti Umani”.