Leonardo Petrucci, “Sol 2081”, 2019, tappeto di lana annodato a mano, Roma, Galleria Gilda Lavia

 

La settantaduesima edizione del Premio Michetti a Francavilla al Mare (Michetti Spalletti e nuovi paesaggi con o senza figura) è posta sotto l’egida di due grandi artisti abruzzesi, Francesco Paolo Michetti, il pittore a cui il premio è dedicato, ed Ettore Spalletti, scomparso nel 2019, a cui la mostra (che ha preceduto quella appena apertasi alla GNAM di Roma) rende omaggio. Così la Processione (1895 ca) del primo e Silenzio, montagna (2013) del secondo fanno da introibo a un’esposizione in cui la curatrice, Daniela Lancioni, ha chiamato undici artiste e artisti di varie generazioni a dialogare con il tema del paesaggio, «con o senza figura», perché se nel dipinto di Michetti la natura è popolata dai personaggi di una processione di campagna, quello di Spalletti presenta un monocromo azzurro, su cui si profila appena il dorso di una montagna. L’omaggio a quest’ultimo artista si completa con un gruppo di pastelli su carta, delicati e preziosi, fatti di orizzonti che scandiscono il foglio in due porzioni di diverso colore, animati, nella loro frugalità, del respiro della natura.
Negli artisti invitati, invece, di natura ce n’è poca: c’è il paesaggio, ma la natura – che pulsa ancora nelle due opere inaugurali – nei lavori degli undici è invece sottoposta a tali processi di filtraggio e di mediazione, da lasciare su di essi una traccia lontana, salvo in un caso, quello di Luis Serrano, che espone due grandi e intensi carboncini su carta e due studi più piccoli dove l’ispirazione alla scena osservata – rocce, cielo alberi – è diretta.
Ai primi dell’Ottocento il paesaggio era stato la grande scoperta della pittura romantica e aveva posto le basi dell’arte moderna perché i paesaggisti (dai naturalisti alla Constable ai visionari alla Friedrich) erano stati capaci di fare della natura oggetto di analisi della percezione e specchio dell’anima. Nei «nuovi paesaggi» di Francavilla sopravvive il genere, ma cambia il referente, o si allontana molto, come avviene, letteralmente, nei lavori di Leonardo Petrucci, il vincitore (proclamato da una giuria formata da Enzo De Leonibus, Giulia Ferracci e Lucilla Meloni). I due tappeti di Petrucci, stesi sul pavimento, riproducono infatti porzioni del suolo di Marte, basate su fotografie riprese dal robot Curiosity della NASA, e le due opere a muro propongono parti di terreno marziano ricostruite in laboratorio e sagomate come sculture geometriche da parete, giocate sul rapporto fra il rigore dei contorni e le rughe aride della materia. Marina Paris, in un grande lavoro fotografico senza titolo del 2020, guarda alla natura e alla città dalle finestre di una grande casa disabitata nel quartiere Prati, a Roma. Le finestre sono tre grandi occhi sul mondo esterno, il sole è basso, la luce sul pavimento si allunga e il tema della finestra sul paesaggio, così legato alla storia della pittura moderna, da Bonnard a Matisse, è ripreso dall’autrice per trasmettere la sensazione di un tempo sospeso, quasi metafisico, reso ancora più immobile dalla geometria dell’architettura e delle finestre. A questo lavoro si accompagnano tre piccoli paesaggi dove l’artista, in un gioco di paradossi e mise en abyme, strappa il margine superiore di tre vecchie cartoline con panorami di località marine in bianco e nero, ricavandone il profilo di un paesaggio montuoso.
Simone Cametti testimonia, con fotografie e segni al neon, due azioni compiute sulle montagne abruzzesi. Si fotografa mentre dipinge di verde una porzione del brullo altipiano sotto il Gran Sasso, dove è arrivato a piedi, da solo, portando con sé le latte di vernice, il dispensatore del colore e i mezzi per la sussistenza. L’artista presenta anche due profili lineari di neon, che recano la traccia (in due porzioni separate) di una camminata di quaranta chilometri sul sentiero tra due rifugi abbandonati sui monti della Laga, itinerario percorso (e filmato) dall’artista di notte, al lume di una torcia elettrica. Con le mappe lavora anche Alberto Montorfano, che copre di carta velina plastici geografici in rilievo e ne registra le emergenze alla cieca, mediante un delicato lavoro di frottage. Montorfano si serve dei colori usati per indicare altezze e profondità nelle carte geografiche per i due «ritratti» (Scala Reale), suo e della sua compagna: due stecche di legno a sezione quadrata (12×12 cm), «lei» (157 cm) presentata nella gamma marina dal blu scuro all’azzurro, «lui» (186 cm) in quella terrestre dal verde al marrone.
Eleonora Cerri Pecorella fotografa porzioni di cielo nuvoloso in bianco e nero, traducendo nella scala dei grigi quello che negli anni venti dell’Ottocento, all’alba del moderno, per Constable, Dahl e tanti altri, era stato il motivo attraverso cui cogliere le mutevoli sfumature della luce naturale. L’artista propone anche fotografie di ortaggi che, con un gioco di messe a fuoco e sfocature, evocano paesaggi: cieli, terre e onde. Anche Mariagrazia Pontorno offre allo sguardo un cielo, quello che appariva sopra Berlino il giorno della caduta del Muro, un tessuto ricamato allestito sul soffitto di una sala della mostra e segnato al centro da una linea rossa, che trasferisce l’assurdo geopolitico del Muro nel mondo delle costellazioni, indifferenti, queste ultime, alle miserie del nostro pianeta; sulle pareti l’artista presenta collage digitali che giustappongono frammenti di fotografie dell’11 settembre 1989 a parti della camicetta ricamata da una signora berlinese, che ha vissuto le durezze del secondo dopoguerra.
Pamela Diamante (in Estetica dell’Apocalisse) impagina con rigore e finezza grafica, in ordine alfabetico, coppie d’immagini (a, a1; b, b1; …), rispettivamente di un’opera d’arte e di un evento naturale catastrofico, unite da un forte legame visivo: un cretto di Burri accanto a una porzione di terreno prosciugato dalla siccità, o lo scavo di North, East, South, West di Michael Heizer assieme a un’enorme voragine circolare apertasi nel 2010 a Città del Messico. Il gioco delle affinità morfologiche si ripete in una serie di lavori (Fenomenologia del Sublime) dove frammenti di pietra paesina sono accoppiati a fotografie di paesaggi che ne replicano le forme. Leonardo Magrelli declina in altra chiave il tema delle somiglianze e delle specularità: propone infatti fotografie di paesaggi tratte in apparenza dal vivo, ma che viste da vicino si rivelano artificiali perché riprese dal videogioco Grand Theft Auto, i cui scenari replicano con esattezza scorci della città di Los Angeles. Delfina Scarpa percorre «in soggettiva» (nota Lancioni) una foresta (nel parco di Ninfa) in cui tronchi d’albero dipinti di colori acidi formano un paesaggio onirico, metamorfico e un poco disturbante, che fa pensare a una natura malata e irrimediabilmente alterata. È un tema, quello delle ferite sull’ambiente, affrontato con vena grottesca anche in uno dei lavori di Myriam Laplante, Sirena mutante, fotografia di una performance del 1993 dove l’autrice si presentava come una sirena trasformata, irsuta e con tre seni. Nelle scene di caccia Laplante sostituisce gli animali veri con peluche, quasi una parodia delle giungle di Henri Rousseau, dove l’apparente tenerezza delle scene maschera la crudeltà non già degli animali, ma degli umani.
La mostra di Francavilla nella sua diversità è coerente e compatta, perché i lavori esposti pongono con chiarezza la domanda su come tematizzare il paesaggio nell’arte attuale, e si chiede quanto incidano sulla sua immagine i processi di mediazione e rimediazione, che lasciano intravedere il riferimento canonico, la natura, soltanto in lontananza, per frammenti, a sprazzi, e senza troppi rimpianti.