Bisogna farla finita con l’euro? Lanciato da Oskar Lafontaine a fine aprile, il dibattito nella sinistra tedesca è molto vivo. Alla vigilia del proprio congresso, a discutere è soprattutto la Linke, il partito di cui Lafontaine è uno dei fondatori e più importanti esponenti, ma non mancano contributi di accademici e attivisti sociali.

A sostegno delle tesi dell’ex ministro socialdemocratico è intervenuto sulle colonne del quotidiano die Taz uno dei responsabili del comitato scientifico di Attac Germania, Winfried Wolf, che vede nella moneta unica nient’altro che «il coronamento del progetto dell’Unione europea come progetto delle grandi imprese e delle banche», finalizzato «allo strangolamento delle economie europee più deboli e all’affermazione completa degli interessi del capitale tedesco». Il fallimento dell’euro, peraltro, secondo Wolf era scritto: «Nella zona di libero commercio Nafta non è mai stata presa in seria considerazione l’ipotesi di una moneta comune a Stati Uniti, Canada e Messico, tre Paesi fra i quali esistono differenze analoghe a quelle che osserviamo in Europa, con il Messico nel ruolo ricoperto da Spagna o Italia».

Suggeriscono di «tenere aperta la porta alla possibilità di un’uscita ordinata dall’euro da parte di alcuni stati» gli economisti Heiner Flessbeck e Costas Lapavitsas in un paper pubblicato su incarico della Rosa-Luxemburg-Stiftung, la fondazione di studi della Linke.  Proprio quella possibilità consente, secondo loro, di difendere la Ue come «positivo progetto di pace» fra i popoli. Rispetto alla posizione di Wolf, per Flessbeck e Lavapitsas è importante non buttare via il bambino con l’acqua sporca. I due economisti non sottovalutano i rischi connessi all’uscita dall’euro degli stati «deboli»: la fuga di capitali dalle banche del paese che torna alla divisa locale e il crollo nel mercato valutario della nuova moneta. Per evitare ciò sarebbe necessario agire come a Cipro, dove le fughe di capitali dalle banche sono state impedite, e agganciare la nuova divisa a un sistema monetario sul modello del vecchio Sme.

Critico nei confronti di Flessbeck e Laviptsas, e quindi di Lafontaine, è Mario Candeias, uno dei responsabili della Fondazione Rosa Luxemburg. A suo giudizio, gli effetti di un abbandono dell’euro per un Paese come la Grecia sarebbero nefasti. Tra questi, l’aumento dei prezzi dei prodotti importati, soprattutto macchinari, energia e medicine, senza veri benefici per il settore dell’export: «Dopo decenni di deindustrializzazione, cosa rimane da esportare alla Grecia»? Inoltre, il ritorno a un sistema monetario europeo come quello esistito fra il 1979 e il 1993 «non metterebbe affatto al riparo dalla speculazione internazionale, che tornerebbe a concentrarsi sul mercato delle divise», come avvenne nel ’92, quando dovettero uscirne Italia e Gran Bretagna.

Per Candeias è illusorio pensare che un’eventuale uscita della Grecia dalla moneta unica – anche ammettendo che giovi alla stremata economia ellenica – potrebbe avvenire senza contropartite politiche: «Perché – si chiede nel suo testo pubblicato sul sito della fondazione – sarebbe più realistica l’ipotesi secondo la quale gli stessi che adesso costringono la Grecia a subire dure condizioni, sarebbero invece disposti ad aiutarla a uscire dall’euro senza nulla in cambio»? Pertanto, la posizione corretta, a suo giudizio, non è sostenere la fine dell’euro, bensì battersi per cambiare le attuali regole Ue, «ad esempio per fermare la circolazione di capitali o per riformare i sistemi fiscali».
Al di là del dibattito teorico, nei settori (maggioritari) della Linke che si contrappongono a Lafontaine emerge la paura di confondersi con i partiti comunisti «ortodossi» e nemici della moneta unica quali il Kke greco o il Pc portoghese, rompendo l’asse con forze come la greca Syriza e il Bloco de Esquerda portoghese, che invece difendono l’appartenenza dei rispettivi Paesi alla zona-euro. Non è un caso che in un’intervista di pochi giorni fa al Tagesspiegel si sia fatta sentire Katja Kipping, co-segretaria del partito: «Reagire all’europeizzazione dell’economia con un ritorno allo stato nazionale sarebbe antimarxista ed economicamente irrazionale». Lafontaine è servito.