Per dovere d’informazione democratica questo giornale ieri ha riportato sia le posizioni dei comitati per il Sì che quelli per il No. Ma non siamo al di sopra o fuori la vicenda della richiesta di privatizzazione dell’Atac, l’azienda di trasporti di Roma. Non lo siamo anche perché il manifesto è stato parte in causa del grande movimento che, con milioni di voti, ha vinto in Italia sette anni fa il referendum sull’acqua pubblica, con il quale abbiamo difeso, per tutti, un decisivo bene comune. Si dirà che allora si è trattato di un bene «naturale». Nel capitalismo e in quello finanziario che viviamo, di naturale c’è rimasto ben poco, tutto è ridotto o in via di riduzione a merce e a titolo di scambio. Il trasporto, da questo punto di vista, se naturale non è comunque, è attività umana e settore fondamentale. Presiede sia alla circolazione dei cittadini, delle merci e della forza lavoro (vecchia, nuova e immateriale che sia), sia alla progettazione-visione degli spazi urbani, e non solo. È dunque anch’esso un bene comune. Pensare di privatizzarlo, più di quanto non lo sia già e più di quanto è stato, è davvero sbagliato se, naturalmente, vogliamo pensare ad un futuro del nostro vivere civile.
Certo, è vero che il trasporto pubblico a Roma non funziona; che ci vorrebbero più linee per creare minore esclusione; che gli autobus sono pochi, vecchi e malandati e prendono, con sospetto, persino fuoco; che sono improduttivi e con il bilancio a rosso fisso; che le assunzioni sono spesso clientelari, spartite tra partiti più o meno di potere insediatisi in Campidoglio ecc. ecc. Tutto questo è vero. Ma la convinzione profonda è che, se si vuole avere un potere di controllo sull’ambiente devastato, sullo sviluppo informe, negativo, irrazionale e già privatizzato della città, non possiamo non riconoscere che l’improduttività del trasporto pubblico dipende proprio dal trasporto iper-privato delle milioni di macchine che intasano la viabilità impedendo ogni possibilità alla redditività del trasporto pubblico – oltre ad essere diventate, quale megaparcheggio accatastato tra un monumento e l’altro, l’unico vero e orribile arredo urbano esistente. E il pesante bilancio in rosso è però a fronte di una offerta di servizio che nessun capitalista privato- la «concorrenza» di cui parla il quesito referendario -, legato alla logica del profitto, ha in testa di realizzare, mentre probabilmente pensa solo ad una speculazione momentanea pronto ad essere remunerato «pubblicamente», con i nostri soldi, alla prima crisi. Quanto alla clientela e ai lavoratori, è vera anch’essa: ma solo la rivendicazione della difesa del trasporto come bene comune può essere l’antidoto partecipativo al disinteresse sindacale di classe, per un settore che invece dovremmo considerare più che produttivo.
E poi un’ultima ma non secondaria considerazione. Se si apre la porta al trasporto pubblico, avanzerà la banda, già fortissima, dei privatizza tori della sanità…e poi della scuola, per non parlare dei rifiuti, il bene emergente il cui controllo è fondamentale per la stessa democrazia. E così via. Ma non sono bastate le stagioni di privatizzazioni con le quali, per fare cassa, in questi decenni governi di destra e di centrosinistra, hanno svenduto letteralmente patrimoni di danaro, ricerca, consapevolezza: tutti i gioielli dello Stato? Noi non crediamo che la statalizzazione e la pubblicizzazione siano sinonimo di socialismo (anche se bisognerebbe riflettere sul valore storico del municipalismo socialista); al contrario ha rischiato più volte di diventare il supporto allo sfrenato strapotere del capitalismo privato, nazionale e internazionale. Ma, se si vuole progettare la sola esistenza di un futuro civile, i beni comuni sono un’altra cosa: devono essere pubblici e naturalmente controllati socialmente e mirati ai fini del bene pubblico collettivo, come da Costituzione. Il trasporto non è una merce, noi che lo usiamo siamo utenti non clienti, diversamente da quanto annunciano gli altoparlanti della metro.
Dunque oggi si può andare a votare sul referendum o ci si può astenere. Ma oltre all’immaginario della privacy, da difendere, per noi privato vuol dire privare. E di privazioni non ne possiamo più.