L’ecatombe della miniera di carbone di Soma, città situata tra Bursa e Izmir, nell’entroterra del litorale egeo, diventa di giorno in giorno più spaventosa. Ma la strage non è un caso eccezionale, benché le sue dimensioni siano clamorose. Il fatto è che in Turchia capita spesso di morire sottoterra.

Le statistiche forniscono una prova inconfutabile. Secondo la banca dati dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) nel periodo 1997-2012 sono state 2333 le morti bianche tra i minatori.

Diverse, secondo le varie tesi snocciolate in queste ore, sono le cause a monte di queste tragedie. C’è innanzitutto una cultura insufficiente sulla sicurezza sul lavoro. I controlli e le misure lasciano a desiderare. Ankara, tra le altre cose, non ha ratificato una convenzione del 1995, promossa proprio dall’Oil, sul potenziamento della sicurezza e delle condizioni di salute nel settore estrattivo. Il deficit che si rileva in termini di sicurezza è affiancato, ha riportato l’Ap, da un approccio fatalista. Tanto che il primo ministro turco Erdogan, davanti a un incidente occorso nel 2010, in cui rimasero uccisi 30 lavoratori, arrivò a dire che la morte fa parte del destino del minatore.

L’altro giorno, quando ha effettuato un sopralluogo a Soma, ha in sostanza ribadito il concetto, respingendo le polemiche che sono state scagliate sul suo governo, accusato di negligenza dalle opposizioni laiciste, dai sindacati e dalle associazioni della società civile.

Si punta il dito, in queste ore, contro le privatizzazioni. Alcune parti della filiera estrattiva sono passate nel corso degli ultimi anni dal controllo pubblico a quello dei privati. Il processo, dati alla mano, non ha aumentato il numero delle vittime tra i lavoratori del carbone.

I numeri più significativi, quanto a decessi sul lavoro, sono quelli dell’ultimo scorcio degli anni ’90, quando il comparto era totalmente in mano allo Stato. Nel 1997 ci furono 357 morti, nel 1998 e nel 1999 si toccò quota 296 e 372.

Escluso il dramma di Soma, negli ultimi tempi s’è superata solo una volta quota cento, nel 2011 (159). Nel 2009 e nel 2010 si sono registrati i numeri più bassi di sempre: 26 e 36 decessi. Nel 2012 ce ne sono stati 61, a fronte di 745 morti bianche complessive. Poco più di quelle riscontrate in Italia: 621.

Tutto questo, in ogni caso, non significa che il passaggio dal pubblico al privato sia stato un passo avanti. Il punto è che la riduzione del numero delle vittime è dovuta al parziale adeguamento della Turchia al quadro normativo europeo, determinato dai negoziati di adesione. In un certo senso fa da contrappeso alla mancata firma della convenzione dell’Oil sul lavoro in miniera e a qualche altra carenza.

Al netto di questo, c’è però da dire che l’attuale normativa turca sull’ingresso dei privati nel settore del carbone, approvata nel 2005, è abbastanza brutale e riflette la ricetta liberista squadernata in questi anni da Erdogan.
L’azienda di stato attiva nel comparto, la Turkiye Komur Isletmeleri (Tki), possiede la maggioranza dei bacini estrattivi e ha il potere di pubblicare bandi in cui offre la gestione di alcune strutture ai soggetti privati che sono in grado di assicurare i più bassi costi estrattivi. Dopodiché la Tki compra il carbone da questi stessi soggetti e lo smista sul mercato, riferisce il quotidiano Zaman.

Dunque l’impressione è che le concessioni siano informate più dalla corsa al low cost che da principi di efficienza. Le aziende che gestiscono le miniere, se vogliono stare sul mercato, devono contenere le spese. La sicurezza sul lavoro, accusa qualcuno, è spesso la prima voce a essere tagliata. La Tki, da parte sua, scarica sul privato i costi estrattivi, compra a prezzi contenuti e rivende secondo le tariffe del mercato. Incassando di più.