Nel Novecento, tutto e il contrario di tutto viene ammesso nel campo dell’arte. Non solo, si è incoraggiati a essere creativi nel lavoro e finanche nel tempo libero. Inizia l’era della creatività generica. Questa svolta epocale aveva significato per gli artisti dell’avanguardia storica un affrancamento da limiti e coercizioni di ogni tipo. Ha però ormai mostrato le sue implicazioni nefaste: se tutto va è perché la logica del profitto, che governa comportamenti e pensieri, si fonda non tanto sulla produzione quanto sul rendere oggetto di marketing e consumo qualsiasi cosa o aspetto della vita. Si capisce quindi la necessità di incensare e diffondere il credo della creatività generica. Non si tratta di una liberazione bensì di una condizione coatta. Paradossalmente, si è incarcerati dagli stessi strumenti che promettono la libertà.
I post-avanguardisti
È interessante osservare come gli artisti post-avanguardisti prendano posizione rispetto a questa situazione inedita. La avallano? La sfruttano? Le si oppongono? La ignorano? Proporrò due esempi che illustrano gli atteggiamenti di tre artisti diversi.
Il primo riguarda un progetto fallito. Luca Vitone avrebbe voluto registrare una conversazione con Emilio Prini, ma questi, nonostante le promesse iniziali, gli si nega. Vitone concepisce così un libro sull’incontro mancato (Effemeride Prini, Quodlibet 2016). È un documento che riguarda entrambi gli artisti, e che lascia intendere come i due si conducano nell’epoca della creatività generica. Si direbbe che Prini abbia captato l’annuncio che tutto è possibile in arte e risposto per via negativa: ossia, se tutto è possibile allora vorrà dire che niente è più possibile in arte. Che egli avesse assunto questa posizione lo confermano alcuni tratti tipici del suo modus operandi: esitazione, incertezza, inquietudine e ripetizione. Favoriscono un’opera di lucida sottrazione che Prini ha perseguito dentro e contro uno stato dell’arte tinto di genericità. E ancora. Oppresso dal bailamme del generico e convinto della impossibilità di fare, un artista perde ogni fiducia nella genealogia: i maestri del passato appaiono incomprensibili mentre i sedicenti pupilli fanno presagire futuri abberranti. Quindi in Vitone che bussa alla sua porta, Prini avverte il pericolo che si stabilisca una liason, una progenie. La porta rimane chiusa: non c’è accoglienza, dialogo o continuità.
Con il libro, Vitone prova a superare la barriera e a connettersi con l’altro. Perché lo fa? Invece di cogliere il messaggio drammatico del diniego, si ostina a credere che tutto sia possibile? Ignora che il clima di laissez-faire di cui beneficia è lo stesso che poi impedisce di prendere sul serio l’operato di un artista? Difficile rispondere. Di certo, il volume ha una spiccata qualità esistenziale. Nel comprovare l’impasse in cui è incappato l’autore, elenca cibi e bevande da lui ingerite nei giorni del fallito tentativo di contatto. Questa attenzione al vissuto connota anche altre opere di Vitone. Come se all’annuncio che il creativo sia imploso nel generico egli rispondesse che il collasso è positivo: dopo l’arte viene l’anarchia. D’ora innanzi, l’importanza di ciò che un artista fa è da ritrovarsi nella sfera dell’esperienza, che cresce senza bisogno di riferimenti, estetici o generazionali che siano. Il libro lo indica appunto esibendo i frammenti di una breve forma di vita motivata non solo dalla pura eventualità di un incontro ma anche dall’idea che nelle vicende umane è esistita una risorsa instabile e prodigiosa come l’arte, inclusa quella, assente, di Prini.
Non assecondando il suo interlocutore, Prini involontariamente (?) contribuisce affinché resti una traccia della propria sottrazione. E Vitone? La sua è una addizione, che tuttavia respinge apprezzamenti basati sui criteri tradizionali dell’arte. Il libro ispira a riflettere sulle inclinazioni della vita di un artista. Forse, al contrario dell’arte, quella vita può ancora contenere alcuni lassi di tempo puro e indipendente prima di rischiare di scadere anch’essa nella genericità.
È utile spostarsi da Roma, città del mancato rendezvous, a Jaffa, Tel Aviv, dove è visibile (fino al 19 maggio) la mostra zerubabbel di Haim Steinbach alla Fondazione Magazin III, curata da David Neuman. L’artista, da anni residente negli USA, offre un compendio della sua poetica con questa prima personale in patria. Il generico stavolta non è contrastato né aggirato bensì affrontato di petto. Oltre all’arte e al lavoro creativo, la genericità connota gli oggetti prodotti in serie, nonché i codici della comunicazione visiva e verbale. È in questi ambiti che Steinbach trova i propri materiali. Per esempio, il sistema Pantone, adottato nel mondo per identificare i colori, viene da lui utilizzato sia per colorare le parti di due pareti della galleria sia per esibire delle comuni scatole pantone in metallo all’interno di bacheche di legno e vetro disegnate per lo scopo. Si struttura un insieme percettivo e cognitivo privo di dissonanze: il colore è in accordo con la norma e gli oggetti sono di quelli accessibili a chiunque. Mentre nell’arte americana recente immagini e cose trovate vengono manipolate o ricreate – si pensi a Johns, Warhol, Koons – ora un minimo gesto scultoreo o pittorico basta a replicare nel contesto artistico un sistema di riferimenti collaudato in altri ambiti.
Le parole di un mantra
Ma la trasparenza della mostra riguardo ai propri modelli di intelligibilità non implica una traducibilità e appiattente equivalenza dei segni. Anzi, i codici usati dall’artista funzionano come le parole di un mantra, che, reiterate, raggiungono un grado di inconsistenza fonica e semantica. Gli effetti di questo azzeramento si colgono, per esempio, osservando una bacheca dove è collocata una palla per il gioco delle bocce. È una comunissima palla, eppure appare straordinariamente unica. Come è possibile?
Non è solo che l’opera stimoli la contemplazione disinteressata. Steinbach pone fine alla routine del differimento senza fine: l’oggetto seriale smette di reincarnarsi, esce dal campo di bocce, trascende i concetti di sport e tempo libero, contravviene alle regole di scambio. La palla nella bacheca si mostra nel suo esserci assolutamente così come è, assurgendo infine allo stato di realtà pre- o post-umana. Viene invertita la dinamica del mitico dio creatore ex nihilo. Prima che la boccia entrasse a fare parte dell’opera c’era un numero incalcolabile di bocce identiche, dopo il suo ingresso viene meno ogni termine di confronto. Nel tirarla fuori da e nell’immensità della genericità più amorfa, l’artista ha compiuto un gesto senza precondizioni, un atto di pura creazione capace di generare il vuoto necessario affinché prendesse forma quella pienezza affatto speciale dimostrata dalla boccia. Un’opinione diffusa predica che il confine tra arte e non-arte sia indecifrabile da quando si è convenuto che qualsiasi cosa si può convertire in arte. Probabilmente è ora di smentirla. Innanzi alla boccia si sa esattamente che non è una boccia come tante altre. La questione è semmai quella di stabilire come e perché si verifichi il salto.
Rovesciamento sistemico
Alla grande sottrazione di Prini e alla tenacia esistenziale di Vitone, si può aggiungere il rovesciamento sistemico di Steinbach il quale sembra voglia ristabilire l’unicum a partire dal nulla del generico. Con la nascita della civiltà industriale, l’arte viene sempre più ritenuta una delle attività tra le meno alienanti che gli esseri umani possano intraprendere. In meno di un secolo, il suo destino però si è confuso con quello del lavoro in generale, e ne condivide l’impietosa storia di reclutamento e sfruttamento di tutte le risorse genericamente umane, creatività inclusa. Ma i tre esempi discussi indicano che forse non tutti gli artisti restano complici, passivi o meno, del fenomeno.