Prince è stato centrale dal punto di vista artistico e ancor di più da un punto di vista politico/culturale. Le sue canzoni sono diventate – soprattutto in ambito afroamericano – il manifesto di un vero e proprio culto, il New Breed. In tal senso Let’s Go Crazy, il pezzo che apre Purple Rain, l’album del 1984, è emblematico. Recita: «Mie cari, siamo tutti qui riuniti per attraversare questa cosa che si chiama vita. Io sono qui però anche per dirvi che c’è un aldilà, meglio vivere ora prima che il cupo mietitore venga a bussare alla porta. In questa vita sei da solo e se l’ascensore cerca di portarti giù, tu fai il pazzo, sali di un piano, diventa matto».

Il testo dice tutto e sembra quasi un testamento: c’è la vita ultraterrena e il rimando all’ascensore in cui è stato trovato morto l’artista. Ma è solo un caso, in questa sede contano le parole di quel testo e quelle parole sono l’essenza di Prince artista. Nei suoi album il musicista ha sistematicamente affrontato tre temi: critica sociale, erotismo e visione apocalittica dell’esistenza. Si è anche autoproclamato messia dando davvero vita – come si accennava prima – a un culto: il New Breed, la nuova progenie. Del resto in I Would Die 4 U (sempre su Purple Rain) lo aveva detto: «Io sono il tuo messia & tu sei la ragione per cui Tu-Io morirei per te». Eccolo il culto, ossia un insieme di nuove regole, modi e stili di vita diretti a chi non si sente più rappresentato dai valori della chiesa tradizionale. La nuova chiesa di Prince punta a questi soggetti, la classe operaia nera (e non solo) a cui le strutture di potere tradizionali non offrono più conforto. Prince disvela nuove e più abbordabili vie di uscita: lo fa nel pezzo 1999 (pubblicato nell’82 come l’album omonimo) in cui invita a festeggiare perché «la vita è solo un party e i party non durano per sempre, intorno a noi è solo guerra, quindi se devo morire, stasera darò ascolto al mio corpo». Il contesto, per intenderci, è il 1999 prima, cioè, della presunta apocalisse dell’anno 2000.

L’invito a festeggiare non comporta certo un abbandono promiscuo e orgiastico a cibo, alcol o divertimento estremo, piuttosto Prince chiede di investire con decisione sulla propria fisicità. Come ribadisce in D (ance) M (music) S(ex) R (omance), un altro pezzo dall’album 1999, solo il ballo, la musica, il sesso, l’amore possono salvarci, mentre tutto intorno è rovina fumante; solo una eroticizzazione del quotidiano può preservare vita e vitalità prima dell’apocalisse. In un sistema di valori saltati, in uno spirito del tempo (gli anni Ottanta) gravati da Aids, tensioni negli Usa tra bande rivali, suicidi giovanili in aumento, minaccia nucleare, consumismo estremo, tecnologia sempre più pervasiva, danzare/fare festa e rincorrere la sensualità è l’unico antidoto alla morte, l’unica possibilità per sentirsi vivi.

Le alternative – droghe o suicidio – non sono strade che l’artista ha mai celebrato. Il sesso diventa allora per Prince una forma di resistenza, la speranza per una qualche forma di trascendenza, liberazione e libertà. Il corpo è la tavolozza che nessuno disegnerà per noi, l’unica tela di cui si può essere unici responsabili. Ecco allora che l’adrenalina di un orgasmo, quello che ad esempio prova la protagonista di Darling Nikki masturbandosi, può trasformarsi in una scintilla vitale. In questo modo – come sottolineava nell’89 il critico Richard E. Wimberley – è nell’esperienza vissuta del piacere sessuale/musicale che l’idea di trascendenza si fa terrena, si incarna. La sensazione è quella di un’anima spillata via da un corpo in estasi, un’anima che proprio nel climax dell’eros torna alle sue origini primordiali.

Musica e carnalità, eccolo l’universo di Prince.

Come peraltro – in modo più pacato – già avveniva con Marvin Gaye che nel pezzo Sexual Healing guardava al sesso come ad un sacramento salvifico. Va da sé che sia Gaye che Prince – entrambi nel tentativo di conciliare urgenze erotiche e ambizioni spirituali – hanno sempre confuso l’impulso sessuale con quello religioso e viceversa. Prince addirittura dichiarerà: «Quando suono è come se copulassi con il pubblico, quando sono così eccitato mi sento vicino a dio, mai stato più vicino; la passione sessuale e il Signore sono il massimo a cui si possa aspirare». E però, in pezzi come Dance on (da Lovesexy) riconoscerà anche che c’è bisogno di altro, ad esempio una nuova struttura di potere che costruisca e non vandalizzi. Segnali diversi, contrastanti, tutti in un unico corpo, un’unica testa, quella di Prince, sempre in bilico tra bianco e nero, bene e male, maschio e femmina (si veda la copertina dell’album Lovesexy); quella di un’artista che celebrerà la sessualità per poi cantare in Anna Stesia (anche letto come anestesia): «Tu Signore sei l’unica regola, come potrei dimenticarlo. Tu sei il mio Dio, io sono tuo figlio, noi siamo solo pedine nelle tue mani, ragazze, ragazzi amate dio». Tutto daccapo, tutto rimesso in discussione. Ma questo era Prince, lo stesso che sei giorni prima di morire – contraddicendo quanto da lui sempre cantato – era stato ricoverato per overdose. Proprio questa fragilità/ambiguità lo ha trasformato in uno dei soggetti culturalmente più affascinanti del pop.