Nuove, circoscritte manifestazioni in Afghanistan, nonostante il divieto ufficiale firmato ieri dal ministro dell’Interno, Sirajuddin Haqqani. E nuova stretta dei Talebani, che secondo alcune fonti avrebbero interrotto le comunicazioni in alcuni quartieri di Kabul e starebbero pensando a come controllare le attività sui social media.

EMERGONO INTANTO nuovi resoconti sulle violenze dei giorni scorsi contro i giornalisti, ma per Jen Psaki, portavoce della Casa Bianca, i turbanti neri meritano un plauso. Ieri è infatti partito il primo aereo charter dall’aeroporto della capitale dopo che il 30 agosto anche l’ultimo soldato statunitense ha lasciato il Paese. Il charter della Qatar Airways trasportava 200 passeggeri, alcuni dei quali statunitensi ed è arrivato in Qatar, ha confermato la portavoce Psaki. «I Talebani sono stati cooperativi. Hanno dimostrato flessibilità». I turbanti neri si sono dimostrati «professionali come businessmen».

LA PRIORITÀ PER WASHINGTON e per altre capitali è portare fuori dal Paese quanti sono rimasti «indietro», inclusi nelle liste dei collaboratori a rischio. Sono merce di scambio, per i Talebani. Che avevano assicurato nei giorni scorsi che non gli avrebbero impedito di lasciare l’Afghanistan. Ma lo faranno gradualmente, per ottenerne in cambio il massimo.

E per bilanciare la stretta interna. Ieri nuova repressione delle piccole manifestazioni che si sono tenute nel Paese. E nuovi particolari sulla violenza con cui manifestanti e giornalisti sono stati trattati nei giorni scorsi. Le foto delle schiene di Nematullah Naqdi e Taqi Daryabi sono impressionanti. Giovani giornalisti del quotidiano investigativo Etilat-e-Rooz, due giorni fa avevano appena cominciato a seguire una manifestazione femminile nel quartiere sciita di Dasht-e-Barchi quando sono stati prelevati e accusati di aver organizzato la protesta. Finiti in carcere insieme ad altri colleghi e a qualche manifestante, ne sono usciti con le schiene solcate dai segni rossi delle frustate. Violenze che il direttore del quotidiano definisce torture. E che hanno portato alla mobilitazione delle associazioni di categoria, da Reporter senza frontiere al Committee to Protect Journalists.

MA PER I SIMPATIZZANTI dei turbanti neri non si tratta di giornalisti a cui è stato negato il diritto di svolgere il lavoro: sono «agenti dell’Occidente che fanno propaganda. Bene continuare a spezzargli braccia e gambe, fino a quando non smetteranno». La leadership dei turbanti neri assicura che gli episodi verranno chiariti. Ma non è una semplice questione di gestione della catena di comando. Il messaggio è politico: non c’è spazio per il dissenso. Mentre reprimono internamente, esternamente i Talebani sono alla ricerca di riconoscimento e dei danari per mandare avanti una complessa macchina istituzionale. L’economia è in caduta libera, le istituzioni congelate nonostante l’annuncio del governo.

IL PRIMO MINISTRO mullah Hassan Akhund è tornato a invitare al rientro vecchi funzionari che hanno lasciato il Paese. È tutto finito, non temete. Mentre sono stati bloccati i conti bancari degli esponenti della vecchia amministrazione. Sui canali social, i Talebani mostrano le mazzette di dollari che avrebbero trovato in uno degli uffici di Amrullah Saleh, l’ex vicepresidente, già braccio destro del comandante Massoud, poi tra i sostenitori nella valle del Panjshir della «resistenza» schiacciata giorni fa.

È TORNATO a farsi vivo anche l’ex presidente, Ashraf Ghani. Due giorni fa ha pubblicato un messaggio rivolto al popolo afghano. Nega di essersi appropriato di fondi statali, di essere partito con il malloppo. Dice che non ha capito come sia finito sull’aereo che lo ha portato fuori dal Paese. E si scusa con la popolazione per non essere riuscito a garantirgli un esito diverso. A chi si rivolga, non è chiaro: il suo messaggio è in inglese. E nella lingua del nemico i Talebani redigono l’ultimo comunicato ufficiale. Se la prendono con Washington, che obiettava rispetto alla composizione del nuovo governo: non è inclusivo, include terroristi, criticava un po’ troppo a basse voce il Dipartimento di Stato. Per i Talebani, la posizione degli Usa è contraria all’accordo bilaterale firmato a Doha nel febbraio 2020.

CURIOSO: proprio quell’accordo che i Talebani hanno disatteso, arrivando al potere con la violenza e con un’offensiva militare, nonostante si fossero impegnati a ridurre la violenza e il conflitto. Che si è riacceso due giorni fa nella provincia del Kunar e in altre zone al confine con il Pakistan. I militari di Islamabad puntavano ad alcuni militanti che, dice il Paese dei puri, operano ancora in territorio afghano. Problemi, per i turbanti neri. Dall’altro confine importante, quello con l’Iran, arriva invece il commento dell’ex ministro degli Esteri, Jawad Zarif: «in Afghanistan si ripete un clamoroso errore strategico. Nessun attore, interno o esterno, può governare il valoroso popolo afghano». Si riferisce proprio a Islamabad. E non promette nulla di buono.