A protestare contro il governo di Iván Duque, il 25 aprile, sono scesi in piazza in tanti, tra studenti universitari, docenti, indigeni, contadini, pensionati, sindacalisti, militanti sociali, semplici cittadini: decine di migliaia di persone solo a Bogotà e moltissime altre nelle principali città colombiane.

SE IL PRIMO SCIOPERO nazionale sotto la presidenza Duque intendeva rivelare il profondo malessere della popolazione nei confronti delle politiche adottate dal governo, l’obiettivo è stato raggiunto. Con lo scontato corollario della repressione governativa, attraverso l’intervento del famigerato Esmad, lo Squadrone mobile antisommossa della polizia colombiana già distintosi durante lo sciopero del settore universitario contro i tagli all’educazione pubblica.

 

Bogotà, 25 aprile, confronto tra manifestanti e polizia (Afp)

 

Lunga la lista delle proteste alla base dello sciopero, a cominciare da quella contro il Piano nazionale di sviluppo (Pnd) 2018-2022 all’esame del Congresso, con le sue contestate riforme del lavoro e della previdenza. Un piano che, come ha evidenziato Diógenes Orjuela, presidente della Centrale unitaria dei lavoratori, «spazza via la contrattazione collettiva e cancella il sistema di sicurezza sociale».

Ma sono tornati a farsi sentire anche gli studenti, esigendo il rispetto dell’accordo raggiunto con il governo lo scorso dicembre dopo oltre due mesi di sciopero e denunciando le politiche educative previste dal Pnd in chiara contraddizione con il principio della libertà dell’insegnamento e dell’autonomia universitaria.

Non è mancato all’appello neppure il Consiglio regionale indigeno del Cauca, sceso nuovamente in strada dopo aver preso parte alla «minga indigena, sociale e popolare» in difesa della vita e del territorio che per quasi un mese ha paralizzato la regione sudoccidentale della Colombia, con l’obiettivo di ottenere maggiori investimenti, terre produttive e il rispetto degli impegni assunti dai precedenti governi (tutti ampiamente disattesi).

UN OBIETTIVO parzialmente raggiunto, malgrado la ferma opposizione di Álvaro Uribe, l’ex presidente di estrema destra (noto per i suoi legami con il paramilitarismo e il narcotraffico) di cui Duque è considerato la diretta emanazione: è preferibile – ha scritto – chiudere la via Panamericana (bloccata dagli indigeni) «per due anni» piuttosto che «firmare accordi con la minga appoggiata dal terrorismo».
Ma Uribe si è spinto anche oltre, scrivendo un tweet che è suonato come un’istigazione alla strage: «Se l’autorità, serena, salda e basata su criteri sociali implica un massacro, è perché dall’altro lato ci sono violenza e terrore più che protesta». Più chiaro di così.

MA TRA LE PRINCIPALI rivendicazioni dello sciopero di 24 ore non poteva mancare quella relativa all’accordo di pace con le Farc, che – già rivisto al ribasso dopo la vittoria del No al referendum sulla prima versione del trattato e poi rimasto gravemente inapplicato sotto il governo Santos – è ora oggetto degli attacchi di Duque. Il quale ha persino tentato di picconare uno dei suoi pilastri principali, quello della Giurisdizione speciale per la pace (riconducibile al modello di giustizia restaurativa già applicato in Sudafrica), andando tuttavia incontro a una sonora sconfitta in parlamento.

UN FALLIMENTO, quello dell’accordo di pace, dimostrato anche dalla continuità dello sterminio di leader sociali e contadini, soprattutto nelle aree rurali della Colombia. Dalla firma dell’accordo nel 2016, sono stati infatti oltre 500 i dirigenti sociali assassinati, più 128 ex combattenti delle Farc.

E nella lunga lista del genocidio politico in corso è finito anche un neonato di 7 mesi: Samuel David, figlio di un ex combattente e di un’indigena wayuu, Carlos Enrique González e Sandra Pushiana (rimasti feriti nell’attentato), e uno dei «bebè della pace», in quanto nato in uno degli Spazi territoriali di qualificazione e reinserimento, a Tierra Grata nel Cesar, previsti dal processo di pace proprio per favorire il reinserimento della guerriglia nella società.