Dopo tre mesi in cui lo show repubblicano ha monopolizzato talk show e prime pagine dei giornali, a Las Vegas è stato il turno dei democratici, saliti sul palco del primo dibattito presidenziale per cercare di dare un volto a un partito post-Obama. Malgrado gli sforzi della Cnn, si è trattata di una rappresentazione piuttosto pallida del classico format delle campagne politiche americane.

Malgrado le riprese e gli effetti da Superbowl (compreso inno nazionale cantato da Sheryl Crow), la formazione è sembrata una squadra di serie B reclutata in fretta e furia per mimare la narrativa del dibattito competitivo, attorno a Hillary Clinton e al suo principale sfidante Bernie Sanders.

Sul palco del Wynn Casino sono saliti Clinton, Sanders, l’ex governatore del Rhode Island Lincoln Chafee, l’ex senatore del Virginia Jim Webb e Martin O’Malley, ex governatore del Maryland e sindaco di Baltimora, illustri sconosciuti con meno dell’1% nei sondaggi.

Gli americani che si sono sintonizzati lo hanno fatto solo per ascoltare i due pretendenti alla nomination. E sia la Clinton che Sanders hanno rispettato il copione, cercando di delineare esili differenze su clima, lavoro, economia, disuguaglianza e immigrazione, con Hillary nei panni della legittima erede dell’ex avversario Obama e Sanders come «movimentista» della riscossa liberal.

Il senatore del Vermont ha riproposto il tema centrale della sua campagna contro la diseguaglianza e l’ingerenza delle oligarchie nel processo democratico. La domanda del moderatore Anderson Cooper su come sia pensabile l’elezione di un presidente «socialista» aveva senso, considerato quanto sia tuttora anatema questo termine in gran parte degli Usa.

L’autoproclamato socialdemocratico ha spiegato che è contrario a distribuire il 90% della ricchezza al solo 1% dei cittadini, proponendo il modello scandinavo di stato sociale.

Dal canto suo, Hillary Clinton si è dichiarata progressista «ma pragmatica», proponendosi come la leader in grado di completare il programma Obama – l’unica col pelo sullo stomaco sufficiente per tenere testa ai repubblicani.

Nella capitale del gioco d’azzardo Sanders ha ripetutamente denunciato il «capitalismo da casinò» e la «bancarotta fraudolenta» di banche e speculatori finanziari che ha ridotto il mondo sul lastrico.

[do action=”quote” autore=”Hillary Clinton”]«Voglio salvare il capitalismo da se stesso, a tutti piace la Danimarca ma qui si tratta di salvare la classe media americana»[/do]

Clinton ha replicato di voler «salvare il capitalismo da se stesso». «A tutti piace la Danimarca – ha aggiunto con malcelato sfottò – ma qui si tratta di salvare la classe media americana». Dal canto suo Sanders non ha esitato nel ricordare i legami assai stretti fra Clinton e le lobby di Wall Street: «Wall Street ormai regola il Congresso, non il contrario» ha detto.

È stato uno dei rari momenti di effettivo contenzioso fra i due, replicato poco dopo sul tema delle armi da fuoco. La regolamentazione della vendita delle armi è l’unico argomento su cui Sanders ha una posizione moderata – di «realismo rurale», come sostiene lui, senatore di uno stato dove caccia e porto d’armi sono sacramenti culturali. Le recenti polemiche sull’epidemia di sparatorie hanno dato a Hillary la rara opportunità di superare a sinistra l’avversario, e anche a Las Vegas ha attaccato l’ambiguità di Sanders che ha spesso votato contro giri di vite normativi sull’argomento.

L’altra recente mossa strategica della campagna Clinton è stata la dissociazione dal Tpp, il trattato di libero commercio asiatico appena firmato da Obama, un modo per rinsaldare l’alleanza coi sindacati (e la loro macchina di finanziamento politico).

[do action=”quote” autore=”Bernie Sanders”]«E’ Wall Street ormai che regola il Congresso, non il contrario. Sono l’unico a non accettare i finanziamenti dei miliardari»[/do]

Ma proprio sui finanziamenti Sanders ha avuto l’ultima parola, ripetendo di essere l’unico a non accettare soldi da «grandi interessi e miliardari». La caratteristica fondamentale cioè di una campagna grassroots, basata su ampia partecipazione e militanza.

Martedì i supporter «sandernisti» hanno seguito il dibattito in migliaia di house parties organizzati in case private. Il loro candidato ha ripetutamente invocato una «rivoluzione politica» in cui le riforme – su clima, istruzione, razzismo – vengano attuate dalla «pressione della base». Le sorti della Sanders revolution dipendono quindi molto dalla partecipazione e la sua battaglia sarà necessariamente contro la disaffezione di una larga parte della coalizione che portò al potere Barack Obama, quella alleanza di donne, minoranze e giovani che entrambi i candidati hanno corteggiato.

È risaputo che nei dibattiti televisivi non è la sostanza dei discorsi che conta ma l’ineffabile iconografia della rappresentazione. Da questo punto di vista la Clinton, posta al centro del gruppo, ha senz’altro rivestito la parte della front runner: a suo agio, rilassata e sorridente, ha trasmesso la consuetudine al potere e l’aspettativa della vittoria finale evitando, perlopiù, di apparire arrogante.

Ma la strada è ancora lunga e sarà senz’altro destinata a essere oggetto del fuoco incrociato repubblicano, anche se per ora rimane la donna da battere.