Ha due volti il primo maggio egiziano di quest’anno. Da una parte quello del presidente al-Sisi, che sabato ha premiato dieci «sindacalisti modello» della federazione parastatale Etuf, che da decenni detiene il monopolio assoluto delle organizzazioni dei lavoratori nel paese. Nell’occasione al-Sisi ha voluto omaggiare i lavoratori «motore produttivo» dell’economia egiziana, ringraziando la popolazione per i sacrifici economici di questi anni.

Tutt’altro sapore avrà invece la giornata per gli attivisti sindacali non allineati, impegnati in una campagna serratissima per il riconoscimento delle loro organizzazioni indipendenti. Dopo la rivoluzione del gennaio 2011 sono nati centinaia di nuovi sindacati rimasti da allora in un limbo legislativo che ne ha impedito la regolarizzazione.

Da poco però la partita si è riaperta con l’emanazione dei decreti attuativi della nuova legge sui sindacati, che pur ponendo molte restrizioni sembra lasciare qualche spiraglio. I decreti infatti prevedono che tra maggio e giugno si aprano le procedure per le elezioni di nuovi organi direttivi dei sindacati, a tutti i livelli.

Le ultime elezioni, sempre pesantemente manovrate dal regime, si erano tenute nel 2006 ma, una volta scaduto il mandato quinquennale degli eletti, anziché convocare nuove elezioni i vari governi avevano sempre preferito nominare direttamente la leadership del sindacato ufficiale.

Ma la grande novità è che (almeno sulla carta) a questa tornata le elezioni previste dalla legge riguarderanno anche i sindacati indipendenti e non solo il rinnovo delle cariche del sindacato statale.

Sarebbe la prima volta nella storia egiziana, ma la strada è tutta in salita. I sindacati indipendenti hanno solo 60 giorni di tempo per ottenere il riconoscimento ufficiale del loro status legale e gli uffici competenti a livello territoriale spesso rifiutano di accettare le domande presentate dalle organizzazioni non affiliate alla Etuf.

Così, è partita da diverse ong, sindacati, attivisti e partiti di sinistra una campagna di informazione, con infografiche e video esplicativi lanciati sui social network e la creazione di un numero di telefono di «pronto intervento» legale per supportare i sindacati a cui viene rifiutata la regolarizzazione.

Il 20 aprile i promotori della campagna hanno dato vita ad una rete tra varie realtà sindacali e politiche per coordinare più efficacemente la battaglia.

Il movimento sindacale egiziano vive da anni una fase di declino. È ormai lontano quel primo maggio 2011 celebrato in Piazza Tahrir per rivendicare misure di equità sociale e libertà di associazione sull’onda della rivolta popolare. Ma non si fermano le proteste dei lavoratori, pur se isolate e difficili da inquadrare in un movimento coeso e organizzato.

È di questi giorni la notizia di uno sciopero proclamato dagli operai di uno degli impianti della Bisco Misr, colosso agroalimentare che ha deciso unilateralmente di sospendere il pagamento dei dividenti annuali che per legge le società devono versare in busta paga ai dipendenti.

L’azienda dichiara di non avere utili da redistribuire ma i 40mila operai in mobilitazione contestano, bilanci alla mano, che il volume di affari è addirittura aumentato e reclamano la loro parte. Il salario degli operai più anziani alla Bisco Misr è di 1.500 lire egiziane (circa 70 euro) al mese, vicinissimo alla soglia di povertà calcolata dall’istituto nazionale di statistica egiziano. Al quarto giorno di picchetto sei lavoratori della Bisco Misr (tra cui una donna) sono stati arrestati, per poi essere sottoposti ai domiciliari. Secondo Human Rights Watch, tra il 2016 e il 2017 sono stati almeno 180 i lavoratori arrestati o denunciati per proteste.

Ma c’è anche qualcosa da festeggiare. In queste ore, a pochi giorni dal lancio della campagna, alcuni sindacati indipendenti annunciano che la loro richiesta di regolarizzazione è stata accolta. Iniziano a circolare foto di attivisti che sventolano sorridenti certificazioni ufficiali che riconoscono per la prima volta lo status legale delle loro organizzazioni. È il caso di dire che la lotta paga. E, questo sì, è un buon augurio per il primo maggio.