I robot e Paola Clemente, l’intelligenza artificiale e la fatica mortale. Una celebrazione non retorica del Primo Maggio esige di saper guardare alle forme opposte che oggi assume la parola “lavoro”.

Da un lato ci sono gli studi che prevedono entro 15 anni, per le società avanzate come la nostra, la sostituzione con le macchine di un terzo delle attività oggi svolte da esseri umani: non solo nelle industrie, ma nei servizi e nell’assistenza. La nostalgia non aiuta a difendere l’occupazione, ammesso che certe condizioni di lavoro siano da rimpiangere. Serve investire di più, molto di più, nella formazione, nell’abbattimento del divario digitale, perché soltanto attraverso un adeguato livello di conoscenza si potrà trovare lavoro.

Noi siamo il secondo Paese in Europa nella produzione di robot, ma scivoliamo agli ultimissimi posti nelle spese per ricerca e sviluppo.

Per troppi anni si è pensato, sciaguratamente, che la competizione economica su scala mondiale potessimo reggerla soprattutto puntando sull’abbattimento del costo del lavoro, dando più flessibilità alle imprese per assumere e licenziare. Le conseguenze le possiamo leggere in poche, dure cifre: in Italia la disoccupazione giovanile è tra il 38 e il 40%, contro una media europea del 22; le donne che lavorano sono 48 su 100, mentre il dato Ue è di 12 punti più alto.

E’ imperativo allora cambiare politiche: uscire dall’austerità, rimettere in moto investimenti dello Stato – sì, dello Stato, senza vergognarsene – che possano fare da traino anche all’investimento privato. E la mano pubblica dovrà farsi sentire anche nella transizione che la robotica impone: che non sarà un felice saltellare da un impiego a un altro, ma una complicata riqualificazione da accompagnare con idonee forme di welfare.

Se questo è il futuro già presente, d’altro lato resiste un presente che sa di passato remoto, di schiavitù. Il Primo Maggio dell’anno scorso ho avuto l’onore di celebrarlo in Puglia, a Mesagne, insieme alle compagne di lavoro e al marito di Paola, la bracciante stroncata dalla fatica mentre lavorava per 27 euro al giorno. Il livello più basso nello sfruttamento. Appena un gradino sopra, non in campagna ma nelle nostre ‘evolute’ città, i fattorini portacibo che ci pedalano accanto nelle strade.

Che sia lavoro modernissimo o arcaico, che si tratti di automazione, di uva da raccogliere o di piatti caldi a domicilio, il punto-chiave però è sempre lo stesso: i diritti di chi lavora, per troppo tempo considerati un ‘lusso’ comprimibile in nome della concorrenza.

Questa legislatura ha mandato segnali contrastanti. C’è stato il jobs act, con tutto il suo impatto sui licenziamenti per motivi disciplinari del quale il vostro giornale dava conto venerdì. Ma è stata anche la legislatura della nuova legge contro il caporalato, una conquista di civiltà maturata non casualmente nel dialogo con le rappresentanze sindacali. E la Carta dei diritti universali del lavoro, sotto la quale la Cgil ha raccolto più di un milione di firme, è diventata una proposta di legge di iniziativa popolare che ha iniziato il suo iter nella commissione di Montecitorio.

Il lavoro e il non-lavoro sono ricomparsi nel radar della discussione pubblica.

Sta ora soprattutto alle forze progressiste metterli sempre più al centro della loro azione, e farne magari una delle questioni fondamentali sulle quali orientarsi per decidere le prossime alleanze.

* L’autrice è la presidente della Camera dei Deputati