I profughi che due giorni fa hanno deciso di lasciare la stazione Keleti e di mettersi in marcia verso Vienna hanno sbloccato una situazione sempre più difficile da sostenere. L’apertura delle frontiere da parte dell’Austria e della Germania ha consentito loro di avvicinarsi al sogno di cambiare vita e di stare al sicuro, lontano da violenze, guerre e miseria. Se ne sono andati in molti verso la destinazione prescelta, molti altri sono arrivati alla stazione orientale che continua ad essere un presidio portato avanti all’insegna dell’attesa quotidiana di poter lasciare il paese.

Ieri la televisione ungherese ha riferito di nuovi momenti di nervosismo verificatisi di mattina alla stazione con i migranti accalcati tra i binari. E sempre ieri una nuova marcia: diverse centinaia di migranti hanno lasciato la stazione verso le 11,30 sulla scorta di quanto avvenuto il giorno prima. Ma le dichiarazioni delle autorità ungheresi sono state poco incoraggianti: «Non ci saranno altri bus, quella presa in precedenza è stata una misura eccezionale concertata dal primo ministro ungherese Viktor Orbán con il cancelliere austriaco Werner Faymann».

Nella serata di ieri si sono rincorse diverse voci, c’è stato qualcuno che inaspettatamente ha detto che ci sarebbero stati dei bus. Voci incontrollate, nient’altro. Poi, durante la marcia, a una ventina di chilometri dalla capitale, forse anche di più, si sono sentiti un boato e un battimani generale. Ciò è avvenuto quando si è saputo che probabilmente, alla stazione ferroviaria di Biatorbagy sarebbe giunto un treno della Máv, la compagnia ferroviaria ungherese, e poi forse altri per portare i migranti al confine con l’Austria. Erano partiti in mattinata perché consideravano che non fosse più il caso di aspettare treni che non partano. «Se nessuno ci porta in Austria ci andiamo noi, da soli, con le nostre gambe», avevano detto alcuni. Quanti di loro hanno già camminato a lungo? Un giovane afghano dice di essere arrivato in Ungheria a piedi dall’Iran per seguire quella rotta balcanica di cui da tempo parla la stampa internazionale. Quasi cinquanta giorni di viaggio di fronte ai quali il cammino che separa i migranti riuniti in corteo potrà sembrare poca cosa, ma ci sono anche i bambini e non sono pochi.

Meno male che si è attivata fra diversi ungheresi una solidarietà tale da rendere meno duro il percorso. È avvenuto già col primo gruppo: auto che si fermavano lungo la strada per offrire acqua ai migranti, per accompagnarli per un tratto, se possibile fino al confine, almeno le donne con i bambini. Ieri lungo il percorso c’erano un po’ qua e un po’ là degli ungheresi fermi con confezioni di acqua minerale, una ragazza reggeva una cassetta di mele da distribuire, altri offrivano cioccolato, barrette di cereali e miele e quant’altro potesse essere di conforto a queste persone in marcia. Vicino ai migranti delle volontarie di Migration Aid, un gruppo della società civile ungherese, che si è impegnato nella raccolta di tutto ciò che può essere utile ad aiutare chi sta ancora accampato a Keleti e chi decide di andare via: cibo, acqua, pannolini, indumenti, prodotti per l’igiene personale e altro. Migration Aid è tra le organizzazioni che hanno concepito le manifestazioni svoltesi nel centro di Budapest con lo slogan «Not in my name – Az én nevemben ne» per dimostrare solidarietà ai migranti e criticare la rigidità del governo anzi, la sua mancanza di approccio umano al problema, come dicono quanti hanno aderito alle iniziative di piazza.

La situazione si è sbloccata, la marcia verso l’Austria, i cento autobus forniti dalle autorità ungheresi hanno fatto sfogare un po’ il flusso di gente strozzatosi a Keleti. Del resto Budapest, Vienna e Berlino hanno dovuto fare i conti con la realtà, con una realtà sempre più difficile da sostenere.

L’esempio dello scalo ferroviario della capitale ungherese è emblematico di questa situazione che è poco definire critica. È un’emergenza umanitaria, lo dicono chiaramente le immagini catturate in questi giorni a Keleti: tende, donne sedute sul pavimento con i bambini in braccio, gente che va avanti e indietro, gente che cerca di riposare dove può, file ai wc chimici, file ai rubinetti per lavarsi, l’acquisto di un kebab, di una pizza o di un panino al fast-food. Di questi chioschi, di questi punti di ristoro ce ne sono tanti nel sottopassaggio della stazione e in superficie.

«Ogni giorno che passa conosco nuova gente qui, mi faccio nuovi amici», dice un ragazzo afghano di 18 anni che ha lasciato la famiglia a Kabul. Le sue parole descrivono un contesto vissuto all’insegna della condivisione dei disagi, delle attese, delle speranze e delle decisioni drastiche, come dimostrano le marce di questi giorni.

Finora pochi treni hanno portati i migranti via dallo Stato danubiano; ieri, secondo quanto riferito dall’agenzia di stampa Mti, il primo treno speciale con a bordo con circa cinquecento richiedenti asilo è arrivato a Monaco di Baviera. Ma è un caso tutt’altro che frequente.

Intanto la politica è al lavoro, in una nota del partito governativo ungherese Fidesz si afferma che al posto della politica delle quote serve un serio ed efficiente controllo delle frontiere di Schengen. L’Ungheria, la Slovacchia, la Repubblica Ceca e la Polonia si trovano allineate in questo senso. Questi paesi fanno parte del Gruppo di Visegrád i cui primi ministri si sono incontrati venerdì scorso per fare il punto della situazione e rinsaldare il fronte del no.

Il documento da essi redatto esprime cordoglio per i migranti morti in viaggio e sottolinea la necessità di proteggere a dovere le frontiere di Schengen attraverso un impegno comune e di affrontare i problemi laddove si verificano. Del resto, nel questionario «sull’immigrazione e il terrorismo» inviato a maggio dal governo ungherese alla popolazione si chiede ai destinatari se non sia il caso di aiutare i paesi situati nei quadranti di crisi e quindi i loro abitanti piuttosto che trovarsi a dover fronteggiare flussi migratori come quelli che stanno sfiancando l’Europa.

Il discorso sarebbe quindi di prevenire nei limiti del possibile, il fenomeno, con aiuti in loco e con una rigida sorveglianza delle frontiere. Ma veramente basterebbe?

Le persone che arrivano a frotte in Ungheria accettano di viaggiare in condizioni spesso disumane e rischiano la vita pur di prendere le distanze dal loro paese d’origine e dalla guerra. I siriani che ieri hanno intrapreso la marcia verso l’Austria raccontano che da loro non è più possibile vivere: «Guerra, violenza, bombe tutti i giorni». Uno di loro mostra i graffi che si è fatto passando attraverso il filo spinato della barriera che il governo ha voluto al confine con la Serbia ma che deve essere ancora ultimata. Ha i polpacci, le caviglie e il collo graffiati, mima il modo in cui è entrato strisciando in territorio ungherese. «Non per stare qui – dice – ma per andare in Germania». Interpellati su come sono stati finora in Ungheria dicono che la gente è brava, i poliziotti no e neppure il governo.

Si va avanti e si incontrano ancora, fino alla curva per andare alla stazione e forse anche oltre, gente del posto che offre da mangiare. Non tutti però accettano. Alcuni rifiutano quasi offesi, altri accettano di buon grado, se non altro per i bambini che loro malgrado devono marciare ancora.