Il coronavirus arriva tra gli indigeni brasiliani di una comunità dello stato di Amazonas. La Sesai (Segreteria speciale di salute indigena) ha comunicato il primo caso in una popolazione indigena. Una donna di 20 anni del gruppo etnico Kokama e che collabora nell’attività di prevenzione sanitaria è risultata positiva. Il contagio è partito da un medico che opera nel distretto sanitario della regione. Tutti si trovano sotto sorveglianza sanitaria. Di fronte al rischio di propagazione del contagio i villaggi di Lago Grande e San Josè, al confine con la Colombia e in cui vivono più di mille indigeni, sono stati messi in isolamento. Nella regione in cui è avvenuto il contagio si contano 237 villaggi con una popolazione di 70 mila indigeni.

Secondo il Ministero della salute nello stato di Amazonas sono più di 200 i casi confermati di coronavirus. Nei giorni scorsi, mentre Bolsonaro parlava di gripezinha, le organizzazioni umanitarie avevano lanciato l’allarme sul pericolo che il coronavirus può rappresentare per le popolazioni indigene. Si sottolineava la necessità di compiere ogni sforzo per impedire il suo arrivo nelle comunità, nel timore che possa provocare un genocidio.

La Funai (Fondazione nazionale dell’Indio), che ha sospeso dal 18 marzo tutte le autorizzazioni di ingresso nei territori indigeni, dichiara di «lavorare per garantire la sicurezza delle comunità». In queste settimane i leader di numerosi gruppi indigeni si sono ritrovati per studiare misure di protezione. Tutti gli incontri previsti con gli operatori umanitari sono stati sospesi. Il principale evento delle comunità indigene brasiliane, «Acampamento Terra Livre», che si tiene ogni anno in aprile a Brasilia, è stato cancellato. Molte comunità si sono messe in isolamento volontario e quelle più numerose tendono a dividersi in piccoli gruppi in attesa che finisca l’emergenza. Già 20 giorni fa alcune comunità delle etnie Awa Guaja e Guajajara, che si trovano nel nord-est del Brasile, avevano deciso di ritirarsi nelle zone più interne della foresta.

Viene anche denunciato il pericolo rappresentato dalla presenza di missionari che possono essere veicolo di trasmissione del virus. I leader delle etnie Marubo e Mayoruna hanno denunciato il missionario evangelico americano Andrew Tonkin che, con grande dispiegamento di mezzi, si preparava a svolgere una missione nella Valle Javari, al confine col Perù. Gli indigeni sanno bene quale impatto può avere l’arrivo di un nuovo patogeno sulle loro comunità. Le malattie virali e batteriche importate dai colonizzatori europei hanno decimato nel corso del tempo il 95% della loro popolazione.

Secondo la Funai il problema è ancora più grave per le 107 comunità isolate presenti nell’Amazzonia brasiliana e che sono esposte all’attività illegale di cercatori d’oro e taglialegna. La situazione sanitaria nelle aree più interne è molto carente e presidi sanitari che dovrebbero occuparsi della salute degli indigeni sono sguarniti, soprattutto dopo l’espulsione dei medici cubani voluta da Bolsonaro.