Apocalypse now, il colonnello Kurtz legge nell’oscurità dorata della giungla T.S. Eliot, The hollow men. La camera si muove fra i vuoti e i pieni di una notte nera sul fiume, fino a inquadrare il dorso di qualche libro fra cui spicca Il ramo d’oro di James Frazer, opera che ha esercitato un’influenza profonda su molta cultura filmica del Novecento. Frazer ha insegnato a Francis Ford Coppola come si fa un sacrificio, trasformando la vittima in una creatura sacra destinata agli dèi. È quel che accade con la morte di Kurtz, già personaggio del Cuore di tenebra di Conrad, di cui Apocalypse now è tributo manifesto. Kurtz viene immolato alla maniera degli antichi in modo tale che la sua morte, cruenta come solo i sacrifici dei buoi ad Atene sapevano essere, venga restituita al pubblico come uno snodo simbolico della trama, in grado di imprimere una cadenza sacra al tempo della narrazione e, di conseguenza, al film.
Alla stessa radice ha attinto qualche anno prima Pasolini in Medea (1969), quando Maria Callas, nei panni di Medea, officia un sacrificio tremendo nella sua Colchide, sulle rive del mar Nero, uccidendo e facendo a pezzi il fratello, colpevole di volerle impedire la fuga con l’amato Giasone. Pasolini assorbe, senza filtri, la violenza del rito greco. Ne abbraccia il carattere primordiale e «puro»: «Barbarie è la parola al mondo che amo di più» ebbe a dire in una serie di interviste rilasciate negli anni successivi alla realizzazione di Medea (raccolte sotto il titolo Il sogno del centauro).
«Barbarie» per Pasolini non è una parola astratta ma estremamente concreta, come rivela un saggio recente e illuminante di Paolo Lago (Lo spazio e il deserto nel cinema di Pasolini Edipo re, Teorema, Porcile, Medea, Mimesis «Cinema», pp. 154, e 16,00). Barbarie è lo spazio «liscio», ancestrale, il vuoto-pieno dei deserti in cui viene messo in scena, per esempio, il vagabondare mitico di Edipo. «Striato», invece, è lo spazio antropizzato e borghese: Bologna degli anni sessanta, con cui si chiude l’Edipo re; un’incredibile Piazza dei Miracoli in luogo di Corinto, in Medea. Nello spazio liscio e caldo la musica arriva da un retroterra dionisiaco appena schizzato, in quegli orizzonti bianchi che contornano i luoghi della narrazione filmica; un flauto intona una musica tradizionale rumena, un’arpa sembra anticipare la morte dei figli di Medea.
Come ben sottolinea Lago, quando Medea fa il bagno ai figli, prima di togliere loro la vita, ha in mente sì Il ramo d’oro ma, più ancora, Mircea Eliade e il suo Trattato di storia delle religioni. Opera difficile e complessa quella di Eliade, scritta in undici anni, dal 1937 al 1948: un tempo eterno per un intellettuale che era abituato a sfornare dieci articoli in un mese. Eppure, è ancora Lago a dirlo, soprattutto a Eliade è debitore il «cinema antropologico» di Pasolini, in particolare per quest’idea ancestrale di luogo sacro che ha bisogno di un rito, di un sacrificio per trovare la sua cadenza, per distinguersi dallo spazio profano del capitalismo borghese. Eliade offre a Pasolini la chiave per arrivare al centro, al nucleo pulsante del tempo mitico: un viaggio iniziato probabilmente molto presto, se si pensa alle traduzioni, bellissime, in friulano, di alcuni frammenti di Saffo che appartengono agli anni precedenti al 1949. Pasolini traduce anche l’Edipo re di Sofocle, per la sceneggiatura del film del ’67, sulla scorta della sua traduzione dell’Orestea di Eschilo (’60), andata in scena al Teatro greco di Siracusa, ma ha bisogno di quel senso circolare del moto che l’opera di Eliade trasforma in cosmogonia.
Questa prospettiva ciclica si ritrova nella scelta di incorniciare lo spazio desertico con scenari antropizzati che in qualche modo lo racchiudano: un’indicazione che pervade l’idea stessa di spazio, come ricorda Lago. La logica è sicuramente binaria e oppositiva; il barbaro «meraviglioso» è scenario delle origini, età dell’oro: è il mondo puro e primitivo del Marocco, della Cappadocia, dello Yemen, dell’India. Gli si contrappone la civiltà che, in particolare, nella Grecia secondo Pasolini, per citare il titolo di un bel saggio di Massimo Fusillo (2007), non è altro che l’alveo di un modo ipercinetico e amorale di stare insieme. Non che il binomio sclerotizzato civiltà-barbarie non fosse già presente nell’immaginario antico; versione impoverita del dittico pasoliniano, l’antropologia dei Greci tende spesso a collocare, anche spazialmente, tutto quanto è ritenuto accettabile, sensato e civile all’interno del perimetro delle mura cittadine. La barbarie, al contrario, è lo spazio privo di coordinate, geografiche e sociali; il mondo che si apre oltre i confini, disorientante quando non inquietante; lo spazio in cui i nemici si preparano ad attaccarti, i selvaggi a perturbarti, le bestie ad assalirti; dove abitano i mostri.
L’alternanza luce-ombra in Pasolini è altrettanto netta, ma invertita di segno, rispetto al dettato degli antichi. L’idea di un tempo ancestrale che si rivolge su se stesso serve a dare fluidità al moto dei protagonisti della narrazione filmica, imprimendo loro la cadenza di un metronomo ipnotico.