Qualcuno avrà pensato al celebre «Je est un autre» di Rimbaud, corretto nella grammatica. La citazione, invece, è da Gérard de Nerval. La mostra di Roma, Terme di Diocleziano, Je suis l’autre. Giacometti, Picasso e gli altri. Il Primitivismo nella scultura del Novecento (a cura di Francesco Paolo Campione con Maria Grazia Messina), mostra che si avvale dell’apporto del MUSEC di Lugano, dove si trasferirà nel prossimo aprile, tocca una problematica affascinante, mirando a cogliere non tanto affinità di forma, ma di intenzionalità creativa, tra manufatti etnici e primitivi, di diversa area geografica e temporale, e la scultura contemporanea. La scultura (ma anche le altre arti) nata dalle avanguardie del Novecento abbandona ogni tradizionale nesso strutturale e simbolico proprio della tradizione, e razionalmente decifrabile, per obbedire alle non-regole dell’inconscio, del sogno, del gioco, delle pulsioni sessuali; o della follia: e qui pensiamo a Gérard de Nerval. La limitazione agli esempi degli scultori, in realtà, può costituire un ostacolo all’inquadramento complessivo delle affinità di cui si parla; alla tessitura, ad esempio, o al bassorilievo policromo, si accosta la pittura, tesa anche a trasportare la tridimensionalità delle sculture primitive sulla bidimensionalità del quadro.

Vanno ricordati almeno i precedenti delle esposizioni, dal 1924, dell’americano Albert C. Barnes con sculture primitive e contemporanee di sua proprietà; e la fondamentale mostra di William S. Rubin del 1984 al MoMA, Primitivism in Twenty Century Art. I curatori ora hanno optato per un intreccio complesso di opere primitive e primitivistiche piuttosto che per una presentazione ritmata dallo svolgimento cronologico, o di scuole e tendenze. Chi cercasse di rintracciare diversificati atteggiamenti tra gli «ismi» del Novecento, o affinità formali tra opere contigue nell’allestimento, resterebbe deluso. Si punta piuttosto su una fruizione istintiva e immediata, o su una globale interpretazione a livello concettuale dell’intento della mostra, per rinviare al catalogo (bellissimo per la documentazione e per molti saggi critici) i dati storico-critici e l’esame di nessi più complessi. Questo rinvio a un testo o a una guida, di cui peraltro molti visitatori non vorranno o potranno disporre, può creare qualche difficoltà. Così, ad esempio, di Nuovo mondo di Francesco Toris (tra 1899 e 1905), una delle opere più belle nell’esposizione, sappiamo solo dal catalogo trattarsi non di un precoce esempio di astrazione surrealista, ma di una creazione prodotta nel manicomio di Collegno, tra altre intelligentemente studiate per analizzare i meccanismi associativi e al contempo le qualità estetiche dell’arte degli alienati. Altrettanto fuorviante può essere la scelta di opere molto tarde nella produzione degli artisti, che si erano accostati al primitivo molti anni prima: è il caso di Derain o dello stesso Picasso, nonché di Arp e di Ernst. Ma nella concezione della mostra, si dirà, tutto questo non importa, e mi si accuserà del mio consueto, irriducibile, attaccamento alla storia.

Piuttosto che dal nodo cruciale costituito dalla «scoperta» della scultura africana, tra 1906 e 1907, di Derain, Vlaminck, Matisse e del Picasso impegnato nella gestazione delle Demoiselles d’Avignon (comunque a fondo indagato nel saggio in catalogo della Messina), il punto di partenza è costituito dagli interessi primitivistici dei surrealisti, seguiti da artisti di varie correnti che ne risultano più o meno direttamente eredi. Avremmo visto volentieri anche un Modigliani e soprattutto un Brancusi, di cui si sottolinea l’importanza nell’apparato documentario; ma, a prescindere dalle difficoltà dei prestiti, sempre più pesanti per i curatori italiani, una mostra va giudicata per quel che vi è e non per quello che manca. Un’opera che mi appare particolarmente centrata ad avviare il percorso, pur non essendo un vero e proprio caposaldo nel primo surrealismo, è il Duo amoroso di Masson (fusione posteriore dell’opera del 1939), dove l’intreccio delle membra, mostruoso e aggressivo, sospeso tra la visione frontale e la struttura a tutto tondo, tra la realtà della carica erotica e l’indeterminatezza del sogno, annulla la rappresentazione, alludendo a una fluida compenetrazione di tempo e di spazio; e dove l’essenzialità e l’elasticità delle forme quasi dissolte nel processo di astrazione ricorda Il bacio (1927) di Ernst della Collezione Guggenheim a Venezia, o la sua Berenice (1935).
Non lontane da Masson, nell’allestimento, sono Poupée borgne di Arp (1964) e Mon ami Pierrot (1971) dello stesso Ernst, opere, entrambe, riconducibili a un altro atteggiamento evocato (impropriamente?) dall’incontro con il primitivo, il gioco: che nel primo caso risolve il feticcio in una figura quasi meccanica, deviante dalle soluzioni purissime della scultura di Arp, che qualcuno ricorderà di aver visto, due anni fa, nella stessa sede espositiva; nel secondo caso piega l’ideale della metamorfosi, a lungo al centro della ricerca di Ernst, in un curioso essere animalesco assemblato con solidi geometrizzanti. All’estremità opposta della lunga sala al Duo amoroso sembra rispondere, con una carica erotica più composta, ma proprio per questo suggestiva, Hymen di Braque (1939), che dopo il percorso cubista rivisita morbidezze fauves fuse con un’organicità surrealista, e sorprende con una delle sue rare sculture: le due silhouettes si corrispondono con i loro profili frastagliati, controllate nell’impianto a dolmen. Tra le opere più inquietanti e più pertinenti al tema della mostra, e in particolare della sezione in cui è collocata («Il visibile e l’invisibile»), è L’objet invisible (Main tenant le vide) (1934-’35) di Alberto Giacometti. È una struttura imponente nella sua verticalità, che richiama una divinità o, piuttosto, una maga capace di tenere in mano il vuoto, un nulla pregno di realtà.
Gli artisti appartenenti a una generazione più giovane sono più numerosi, e non tutti notissimi, soprattutto al pubblico italiano. Alcuni, come Armitage, Lynn Chadwick, la sorprendente danese Sonja Ferlov Mancoba, o Mirko con il suo Idolo del 1961, sono fortemente legati a una concezione primitivistica, altri un po’ meno; e le opere esposte di Appel o di Dubuffet si prestano forse meno di altre ad apparire in questo percorso. Ma tutti, comunque, partecipano in modo più problematico alla tematica affrontata. Dall’Informale lo sguardo alle culture extraeuropee si è associato ad altre istanze. D’altra parte, dopo la soglia degli anni venti, in cui appaiono i contributi critici più incisivi (da Carl Einstein al collezionista Paul Guillaume al già citato Barnes), quelle stesse culture perdono di mordente per diluirsi in un fascino e un gusto spesso prevalentemente estetico, quasi assuefatto alle loro prospettive lontane; il collezionismo di prodotti etnici, già nell’Ottocento soggetti a mercificazione e museificati, si espande a dismisura. Il processo è ben documentato dal contributo in catalogo di Alessandro Del Puppo, che considera la portata rivoluzionaria del primitivismo dada e surrealista «un’eccezione lodevole quanto trascurabile». In definitiva, il «primitivismo estetico» creato dagli artisti d’avanguardia, per usare i termini di Campione, «fu un tentativo utopico che diede luogo a una stagione irripetibile dell’arte», esaurito nella seconda metà del Novecento.

Paradossalmente, la ribellione alla cultura occidentale in nome dell’arte primitiva, ribellione che investe la stessa concezione di arte «da museo», cui viene opposto l’artefatto nella sua finalità magica, sacra, apotropaica, il feticcio o la maschera che annulla il volto, i simboli di guerra, di prosperità, di potenza sessuale, è rovesciata nell’appropriazione da parte della stessa cultura occidentale. Pensiamo solo che in questa, pur affascinante e lodevolissima, carrellata allestita in uno spazio museale, l’arte primitiva, al pari dell’arte primitivistica, è prudentemente protetta, ingabbiata nelle teche.