Ieri si è svolto il primo raid americano anti Isis, nei pressi della capitale irachena. L’attacco ha colpito Yusufiya, 25 chilometri a sud di Baghdad. L’annuncio è arrivato dal generale Kassim Atta, portavoce delle forze armate, aggiungendo che l’attacco è avvenuto in coordinamento con il comando iracheno. Tutto come programmato dunque? Non sembra, dato che nella stessa giornata di ieri un generale americano, come ha riportato la Bbc, ha già messo le mani avanti: «In caso di fallimento, siamo pronti a truppe sul terreno».

Fallimento di cosa? Dei raid o di quella coalizione che non sembra essere partita nel modo migliore, tra veti, screzi e dissidi? Certamente il lavoro sporco sul terreno non possono compierlo solo gli altri; questo è un messaggio che a Washington deve essere arrivato forte e chiaro, anche se l’ipotesi non sembra attuale, a stretto giro. Si tratterebbe, tra le altre cose, di smentire niente meno che il Presidente Obama in persona che aveva rassicurato: «Mai più i nostri ragazzi nell’inferno iracheno». Nel frattempo i raid proseguono e giungono a numeri importanti.

I raid Usa sulle postazioni Isis in Iraq sono stati già più di 160: lo ha detto il capo del Pentagono, Chuck Hagel, spiegando come i bombardamenti siano serviti a indebolire le forze degli estremisti e a dare più tempo al governo di Baghdad di costruire una coalizione più ampia. Nel frattempo, il New York Times ha rivelato che circa mille militanti di nazionalità turca combattono tra le fila dello Stato Islamico (Isis), l’organizzazione jihadista che controlla parte della Siria e dell’Iraq settentrionale. Il New York Times ha citato fonti governative di Ankara. Secondo il quotidiano, la Turchia è una delle principali fonti per il reclutamento di miliziani dell’Isis. Nell’articolo si racconta la storia di un ex combattente turco di 27 anni arrivato in Siria con 10 amici e poi unitosi all’Isis dopo 15 giorni di addestramento.

L’uomo, la cui identità non è stata resa nota, ha dichiarato di aver sparato a due «nemici», di aver partecipato a un’esecuzione in pubblico e di aver sepolto viva una persona.
La Turchia ha annunciato nei giorni scorsi che non parteciperà attivamente alle operazioni militari della coalizione internazionale in Iraq e Siria e non concederà le sue basi per raid aerei contro obiettivi jihadisti. Ankara ha spiegato di non voler mettere a repentaglio la vita dei 49 turchi rapiti in un assalto al consolato di Mosul tre mesi fa e ancora nelle mani dell’Isis. Ieri Ankara, però, ha comunicato anche altro.

La Turchia – infatti – starebbe valutando la possibile creazione di una zona cuscinetto al confine con Siria e Iraq per frenare le infiltrazioni di miliziani jihadisti e controllare il flusso dei profughi, ha affermato il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, citato dalla stampa di Ankara. Parlando con i cronisti, Erdogan ha affermato che le forze armate turche «lavorano su dei piani: ce li comunicheranno e prenderemo una eventuale decisione» ha affermato il presidente turco. Ankara è sotto pressione da parte degli Usa perchè fermi le «autostrade della jihad».
Sul fronte kurdo, intanto, i miliziani Peshmerga hanno comunicato la nascita di battaglioni di combattenti cristiani, Yazidi e di altre minoranze nel nord dell’Iraq, che dovranno proteggere le loro aree dopo il ritiro delle forze curde, attualmente impegnate nei combattimenti con l’Isis.