Alla fine Omar al-Bashir qualcosa ha dovuto cedere: a due mesi e mezzo dall’inizio delle proteste anti-governative in Sudan, il trentennale presidente ha passato lo scettro del partito di governo, il National Congress Party, al suo neo-vice, Ahmed Harun (anche lui come Bashir ricercato dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra in Darfour).

Da nuovo leader del Ncp, Harun diventa in automatico il candidato presidente alle elezioni del 2020 se il futuro congresso del partito non deciderà diversamente. L’annuncio giunge in pieno stato di emergenza, in vigore da una settimana per porre un freno alle proteste continue: in poche ore Bashir ha dismesso il governo centrale e quelli locali, sostituendo parte dei ministri e tutti i governatori con militari o ex militari.

Una militarizzazione che passa anche per i tribunali speciali messi in piedi in questi giorni e chiamati a giudicare gli arrestati, in modo del tutto arbitrario, da parte delle forze armate (come chi partecipa a quelle che il decreto presidenziale definisce «manifestazioni illegali»).

I primi otto condannati sono di giovedì: quattro persone a cinque anni di carcere, tre a tre anni e uno a sei mesi.