Che nelle piazze di Tunisi, del Cairo e di Bengasi affiancava le rivolte e i Fratelli Musulmani, poi saliti la potere in Egitto e sbalzati dal golpe di Al Sisi del 2013. In realtà andava in scena un esteso e profondo conflitto sociale che fu prima inghiottito dalla derive estremiste poi dalla reazione conservatrice e infine da devastanti guerre per procura (mai terminate) come in Siria, in Libia e in Yemen, o represse come in Bahrain da un intevento militare saudita e degli Emirati.

QUELLI CHE OGGI ci appaiono come i sogni spezzati di una generazione – illusioni sfiorite dopo gli interventi militari internazionali – allora rappresentavano l’inizio un viaggio straordinario tra i giovani, gli uomini e le donne con il loro straordinario protagonismo, del Medio Oriente e del Nordafrica. Non tutto comunque è finito nel decennio scorso come si vuole far credere, anzi le proteste sono continuate, in Iraq, in Libano, in Sudan, con il movimento Hirak in Algeria e la resistenza al regime egiziano del generale Al Sisi.

Chi scrive si trovò catapultato in poche settimane da Tunisi al Cairo poi a Bengasi, attraversando il deserto egiziano e la Cirenaica, per finire in Siria e ai confini con la Turchia e il Libano. Nelle strade di Tunisi e della provincia profonda di Kasserine il regime di Ben Alì, fuggito il 14 gennaio 2011, tentava gli ultimi sanguinosi colpi di coda mentre gli islamisti di Ennhada, pur ben presenti, erano ancora dietro le quinte. A Piazza Tahrir era sceso in piazza il mondo, dai nasseriani socialisti ai Fratelli Musulmani: uscito di scena Mubarak l’11 febbraio, fu l’esercito con l’anziano generale Tantawi che sfilò impettito lungo il Nilo alla testa dei blindati a riprendere in mano la situazione con il beneplacito di Obama e dell’ufficio della Cia piazzato al Semiramis Intercontinental con le finestre a piombo su piazza Tahrir.

A BENGASI LA RIVOLTA, cominciata il 17 febbraio, fu appoggiata dai raid di americani, francesi e britannici cominciati il 19 marzo sulle colonne dei tank di Gheddafi. Ma ci vollero mesi prima che i ribelli arrivassero alla Sirte con il sostegno militare occidentale e dell’Italia, senza il quale forse il regime del nostro maggiore alleato sarebbe ancora lì.

In Siria la rivolta era divampata il 18 marzo a Daraa per poi propagarsi a Damasco, Homs e Hama. Bashar Assad, con il suo regime repressivo, alleato dell’Iran, della Russia e degli Hezbollah libanesi, appartenente alla minoranza alauita osteggiata dai sunniti, era il nemico perfetto di una guerra per procura. Il via venne dato a luglio 2011 dalla passeggiata dell’ambasciatore americano Ford tra i ribelli di Hama: fu il segnale dell’allargamento della guerra civile alle potenze esterne con l’afflusso di migliaia jihadisti dalla Turchia e dall’Iraq. Cadevano i raìs ma cominciava una nuova fase di tragedie, con migliaia di morti e di profughi. La fine di alcuni regimi da decenni in sella era ingannevole: c’era una continuità tra l’intervento americano nel 2003 in Iraq contro Saddam Hussein e la disgregazione successiva.

UNA LETTURA delle primavere arabe è limitata se non si valutano gli effetti di quel conflitto che sbriciolò un intero Paese nel cuore della Mesopotamia, occupato dagli americani, percorso dalla resistenza popolare e dal terrorismo di Al Qaida da cui poi nacque anche il Califfato. Fu la caduta di Saddam a spingere nel dicembre del 2004 Gheddafi a rinunciare alle sue armi di distruzione di massa e la Siria di Assad fu percorsa da una sotterranea destabilizzazione di origine irachena, aggravata poi dal conflitto tra il Libano e Israele nel 2006. Il jihadismo dall’Afghanistan era passato all’Iraq e dall’Iraq agli altri Paesi della regione: la deriva montante dell’Isis non nasceva dal nulla ma trovava precedenti e terreno fertile ovunque.

Il vaso di Pandora aperto dall’Occidente nel 2003 non fu più, volutamente, richiuso. In Libia, dopo l’intervento di Francia, Gran Bretagna e Usa (poi della Nato), la guerra civile si è allargò con l’innesto dell’Isis. Così come in Siria, percorsa da interventi esterni a raffica e da una distruzione infinita: terreno di battaglia tra chi voleva abbattere il regime di Assad – oggi da 20 anni al potere – come la Turchia, le monarchie del Golfo, gli stessi Stati Uniti e chi voleva salvarlo, come l’Iran e la Russia.

IN IRAQ, TRE ANNI dopo le primavere arabe, il Califfato era arrivato alle porte di Baghdad è a fermarlo non furono gli occidentali ma le milizie sciite del generale iraniano Qassem Soleimani ucciso quest’anno dagli americani. Nei vuoti di potere in Tripolitania dal 2019 si è insediata la Turchia, in Siria dal 2015 la Russia e l’Iran rimane potenza di primo piano dal Libano all’Iraq.

Il Medio Oriente e il Nordafrica, a un decennio da allora, rimane una delle regioni del pianeta con maggiori disuguaglianze: la ricchezza è in mano a clan o gruppi familiari oppure concentrata in impresentabili monarchie assolute che con la rendita petrolifera e finanziaria hanno sostenuto prima Saddam Hussein, poi i gruppi radicali anti-sciiti e anti-Assad, quindi i regimi contrari ai Fratelli musulmani come quello egiziano di Al Sisi e adesso, con il patto di Abramo, stanno convincendo gli arabi, a colpi di dollari, a diventare amici di Israele e clienti del suo sistema militare e securitario. Altro che Sessantotto.