Novantanove per cento. Questa era la percentuale di probabilità che FiveThirtyEight assegnava alla vittoria di Hillary Clinton nelle primarie democratiche del Michigan, martedì. E invece ha vinto il socialista, l’anziano, l’ebreo di Brooklyn Bernie Sanders. «Una delle maggiori sorprese della politica moderna» ha commentato il sito fondato da Nate Silver. Ora FiveThirtyEight è nato precisamente allo scopo di introdurre la statistica, al posto delle opinioni, nella discussione politica americana e Silver aveva annunciato con mesi di anticipo le vittorie di Obama, stato per stato, sia nel 2008 che nel 2012. Per i giornalisti che seguono la campagna elettorale il suo sito è l’equivalente del Corano in una moschea dell’Arabia Saudita.

Il risultato di Sanders, quindi, non viene da un errore professionale: può essere solo il risultato di un afflusso imprevisto ai seggi di molti giovani che in generale non votano, oltre che della decisione di elettori democratici incerti di sostenere il senatore invece che l’ex First Lady. E’ il segnale di una dinamica favorevole a Sanders che si può vedere anche nei sondaggi nazionali, dove la distanza tra i due candidati si è ora ridotta a 9 punti a favore della Clinton (era 40 nell’autunno scorso).

Se Sanders vince in Michigan può vincere anche in Ohio e Illinois, due grandi stati industriali che assegnano molti delegati, dove si vota martedì prossimo. E se Sanders vince negli stati del Midwest, perfino i più ottusi sostenitori della Clinton inizieranno a chiedersi se la loro candidata sia davvero il cavallo giusto nelle elezioni di novembre.

Il motivo è semplice: tutte le vittorie di Hillary finora sono avvenute negli stati del Sud, grazie al forte sostegno della comunità afroamericana. Il che va benissimo, salvo per un particolare: negli stati dell’ex Confederazione vincono i repubblicani, con maggioranze schiaccianti. L’unica eccezione è la Florida, e anche lì il vantaggio di Obama nel 2012 è stato di appena 0,8 decimi di punto. Quindi, un buon candidato «sudista» è poco utile in una elezione in cui i democratici devono assolutamente vincere in Pennsylvania, Illinois, Michigan e Ohio se vogliono conservare la presidenza.

I sostenitori di Hillary, naturalmente, ribattono che se l’avversario sarà Donald Trump, impopolare nell’elettorato più largo e variegato delle elezioni generali, la Clinton non avrà problemi. Il palazzinaro-clown di New York, che probabilmente avrà dietro di sé un partito fortemente diviso, può raccogliere consensi tra i repubblicani più estremisti ma, in una elezione normale, non ha speranze contro un candidato democratico serio e affidabile. Questa è la teoria: un remake delle elezioni del 1964, quando Lyndon Johnson travolse il candidato di estrema destra dei repubblicani che si era imposto a sorpresa, contro l’establishment del partito: il senatore dell’Arizona Barry Goldwater.

Come abbiamo già sottolineato, però, il 2016 è l’anno degli outsider e tenerli fuori dai giochi non è facile. Sanders ha un forte sostegno non solo tra i giovani ma anche tra i lavoratori manuali, quei blue-collars che negli ultimi 35 anni sono stati le vere vittime della globalizzazione e delle politiche reganiane. Se l’apparato del partito, che controlla un terzo dei delegati alla convenzione di Filadelfia, decide di sostenere la Clinton ad ogni costo anche il partito democratico potrebbe spaccarsi in due e qualsiasi risultato diventa possibile. Un terzo dei sostenitori di Sanders dichiarava ieri in un sondaggio dello Wall Street Journal che non voterebbe per Hillary a novembre. Probabilmente molti all’ultimo minuto lo farebbero, ma una scarsa affluenza alle urne dei democratici è la strada più sicura verso la sconfitta.

Sul fronte repubblicano, il partito è chiaramente nel panico. Il cattivo risultato di Marco Rubio esclude di fatto dai giochi il candidato preferito dall’apparato, il che lascia come opzioni possibili solo Trump oppure il senatore del Texas Ted Cruz, che non solo è detestato dai suoi colleghi in Congresso, ma è più a destra di chiunque altro, molto più a destra di Trump, il che lo rende particolarmente vulnerabile nelle elezioni generali. Si tratta di scegliere fra la peste o il colera, insomma.

La settimana scorsa c’è stato un assalto generalizzato contro Trump da parte dei notabili del partito a cominciare da Mitt Romney, il candidato del 2012, ma non sembra che abbia avuto alcun effetto sul voto: Trump ha vinto in Mississippi, in Michigan e alle Hawai, mentre Cruz si è dovuto accontentare della vittoria nello spopolato Idaho, anche se ha ottenuto percentuali dignitose nelle altre primarie.

Si vedrà, nei prossimi giorni, se il movimento «Chiunque ma non Trump» prenderà consistenza e troverà soluzioni per fermare la marcia apparentemente inarrestabile dell’outsider. L’ipotesi più probabile è che no, il partito non ci riesca, e che quindi si arrivi a una convention dove sarà impossibile negare la nomination a Trump. Quanto i repubblicani saranno poi compatti nel sostenerlo si vedrà: all’apertura delle urne, l’8 novembre, mancano ancora parecchi mesi.