Nei giorni scorsi è comparsa la notizia che il Pentagono ha autorizzato la presenza delle soldatesse americane in prima linea. Veramente mi sembrava che una decisione simile fosse già stata presa negli anni scorsi dal Dipartimento della Difesa Usa. Diverse donne dell’esercito americano impegnate nelle operazioni militari su vari fronti – dall’Afghanistan all’Iraq – hanno protestato nel tempo e avviato ricorsi legali per vedersi riconosciuto questo “diritto”. Non è solo una questione di uguaglianza nel coraggio e nell’onore in guerra, ma anche una più concreta questione di carriera: a quanto si legge combattere da posizioni di “seconda linea” non tutela particolarmente dai rischi – e infatti centinaia di donne militari americane sono state uccise o sono state ferite – ma produce in più danni notevoli sulle possibilità di carriera.

La questione comunque continua a fare notizia perché – credo – apre interrogativi profondi nell’immaginario e nel simbolico. La guerra – a parte le mitiche amazzoni – è sempre stata una faccenda per soli uomini. Il corpo femminile è stato al contrario l’immagine di una umanità che avrebbe dovuto restare immune dalla violenza bellica. Naturalmente non è stato mai davvero così. Massacri di civili – donne, uomini, vecchi e bambini – e soprattutto stupri delle donne del nemico hanno accompagnato la guerra anche nei periodi della storia in cui più forti apparivano le regole “cavalleresche”. Nella civile contemporaneità sono diventati l’orrenda realtà quotidiana dei conflitti bellici. Anche se finalmente lo stupro è stato sanzionato come un crimine di guerra. Non senza qualche paradosso: l’ingresso delle donne negli eserciti è infatti accompagnato dal fenomeno degli stupri e delle molestie da parte dei commilitoni maschi. E da parte femminile la richiesta di non subire discriminazioni sulla “linea del fuoco” è anche legata a questo. Una piena pari dignità militare dovrebbe aiutare a combattere il maschilismo tanto diffuso negli eserciti, fino ai suoi esiti più violenti. Forse si può dire che una rischiosissima “prima linea” si è aperta negli ultimi decenni – dovuta principalmente alla rivoluzione della soggettività femminile – su molti fronti simbolici. Nel momento in cui le donne si appropriano, materialmente e teoricamente (penso alle numerose elaborazioni sulla forza e la violenza del recente pensiero femminista) anche della guerra, bisognerebbe riflettere profondamente se questo rappresenti un’occasione per il desiderio – anche maschile – di liberarsi e di liberare il mondo da tutta questa violenza. Si ammira il coraggio delle guerrigliere kurde che a Kobane hanno combattuto e combattono l’Isis. Meno si conoscono i loro tentativi di costruire, dietro la prima linea, nuovi modelli di società e di convivenza civile.

Qualcosa di simile – se posso forzare il paragone – avviene sul fronte dei nuovi modelli di relazione amorosa e sessuale, di maternità e di paternità. Anche qui c’è una “linea del fuoco” calda, dove si contrappongono visioni e convinzioni del tutto diverse. Avviene nelle accesissime discussioni sul se e sul come normare relazioni fino a poco tempo fa sconosciute, come la “maternità surrogata”, o antichissime, come la prostituzione. Credo che la prima regola in questo confronto debba essere quella del partire da sé: noi maschi dovremmo essere capaci di dire molto di più sul modo in cui viviamo e pensiamo la violenza, la forza, il desiderio, su come percepiamo la realtà dei nostri corpi, del nostro poter e voler essere padri, compagni. E anche soldati.