Se un romanzo importante è quello che dà voce a un personaggio tipico dei suoi, dei nostri tempi, allora Animale notturno di Andrea Piva (Giunti, pp. 366, euro 16,00) si può considerare un romanzo importante. Sceneggiatore (di film come LaCapaGira e Mio Cognato, diretti dal fratello Alessandro) e narratore (il suo romanzo precedente, Apocalisse da camera, era uscito nel 2006 da Einaudi), Piva è da anni un giocatore professionista di poker online. Il protagonista di Animale notturno, che ha il nome blasonato e un po’ straniante di Vittorio Ferragamo, condivide con l’autore i suoi due, anzi tre mestieri, ma nella scrittura ha meno fortuna del suo referente reale.

La vicenda raccontata nella prima parte del romanzo, con lo sfondo di una Roma vagamente sorrentiniana, è in effetti la storia di uno scrittore incompiuto e di uno sceneggiatore che ha sabotato il proprio successo: «Salutato una volta per tutte il mondo fatato delle bambinesche illusioni, mi metterò a scrivere il romanzo sbilenco che ho in testa da anni (…) e che leggeranno in tre, mia madre inclusa». È una trama, come si vede, convenzionale (al di là della scapigliatura di maniera, viene da pensare però al grande precedente del Male oscuro, che narra sempre in prima persona, come il romanzo di Piva, la vita di uno scrittore e sceneggiatore che manca l’incontro con la gloria); ma non esaurisce sostanza e svolgimento del libro.

Nella seconda parte, infatti, il romanzo ha una svolta inattesa rispetto agli schemi canonici della bohème intellettuale (dei quali ancora in parte risentiva Apocalisse da camera). La trasgressione diventa disciplina: dal gioco, praticato con metodo scientifico che dà regola all’azzardo, arrivano, se non la felicità, almeno la fortuna materiale e una nuova, peculiare forma di celebrità.

Ma non è questa svolta, felicemente eversiva rispetto all’usuale sottogenere romanzo sullo scrittore e capace di dare uno spaccato (quasi un reportage) sul vario e frequentato mondo del poker online, a determinare la tipicità del personaggio, cui alludevo all’inizio. Il suo carattere è connotato piuttosto dallo stile, soprattutto dal cozzo dei registri lessicali, e dalla gestione della voce narrante. Un esempio: «Insomma, lettore, si tratta di un risveglio difficile. E il fatto, di per sé irritante, si mette a cavallo di un puledro già malmostoso di suo per via degli eccessi di ieri. Però qui in pochi minuti (…) la stessa prospettiva che solo un attimo fa ho esecrato come l’odiosa corvée impostami contro la mia volontà dal padrone prepotente, lo stesso stronzo sopruso adesso non mi sembra più così assurdamente crudele».

Accostando espressioni comuni o abusate («un risveglio difficile», gli «eccessi di ieri») a metafore barocche gonfiate da un lessico scelto («a cavallo di un puledro già malmostoso»), frasi di registro medio-alto («ho esecrato come l’odiosa corvée») a inserti basso-colloquiali («lo stesso stronzo sopruso»), il narratore mette in mostra un’appartenenza culturale e insieme la sua negazione. Inscena lo spettacolo di sé – ammiccando di continuo a un ‘lettore’ suo simile che apprezzi e giustifichi l’esibizione – come intellettuale tanto chiaroveggente quanto scettico, a tratti cinico, spesso misogino (di quella misoginia romantica che idealizza la bellezza per distanziarsi più facilmente dalla persona che la incarna) e disperatamente ironico.

La famiglia morale a cui il protagonista appartiene somiglia a quella da cui vengono i personaggi di Houellebecq, ma Ferragamo conserva una possibilità di scelta e intervento, per quanto agevolata dal caso e dalla temerarietà, negata ai parenti francesi. Naturalmente, Ferragamo è troppo intelligente per non sapere di essere così e rammaricarsene in certe occasioni (come quando si rende conto di essersi giocato a poker, in poche ore, l’equivalente di dieci anni di stipendio del padre operaio). Ma la condizione da cui parte ogni sua riflessione, a volte sociologicamente notevole, è postuma, apocalittica (come è a volte postuma l’organizzazione dell’intreccio: le catastrofi, anziché essere narrate mentre accadono, vengono riassunte dopo, o al più annunciate, senza che il lettore le veda accadere). «Non ci siamo saputi adattare» – osserva apocalittico il narratore – «Ridotti come siamo alla più totale marginalità nel mondo dei quanti e del codice binario, noi viviamo di scetticismo (…). Oh, noi pensiamo di sapere, ma senza prove, perché siamo poeti: e non sappiamo niente».

Sennonché, il personaggio tratteggiato da Piva non è solo un apocalittico, ma è anche un integrato; anzi, si serve della coscienza dell’apocalisse come strumento di una spregiudicata integrazione, che non ha niente di simpatico (cioè, di simpatetico), a dispetto del carattere brillante del protagonista: «Coltiverò la mia parte peggiore perché solo la mia parte peggiore può riuscire a sopravvivere, qui, nel lungo periodo. Non ho alternative, non posso scappare da quello che sono. Io sono un animale notturno, lettore. E vivo da solo». Può sembrare l’annuncio di un destino quasi titanico; ma gli animali notturni finiscono a volte nei grandi zoo, chiusi nell’oscurità perenne di un nocturama. Non è la sorte che ci si augura per il genere di intellettuale che il protagonista è o potrebbe essere, e forse non abbiamo bisogno dei Vittorio Ferragamo. Ma Piva ha saputo cogliere e rappresentare con efficacia l’ethos di quel tipo emblematico.