Dovrà aspettare ancora, per avere i suoi «super poteri». La cosiddetta riforma della Rai, che avrebbe dovuto essere approvata definitivamente ieri sera a palazzo Madama, come effetto immediato avrà quello di consegnare lo scettro all’attuale direttore generale di viale Mazzini: Antonio Campo dall’Orto, il renziano leopoldino che nella sua nuova veste ha però preferito disertare l’ultima, sfortunata Leopolda, ché il premier non aveva certo bisogno di altre polemiche. Ma il voto finale al provvedimento è stato rinviato, perché chiedere ai senatori di restare in aula il giovedì sera evidentemente è una pretesa eccessiva. E infatti alle otto, dopo l’ennesima mancanza del numero legale nonostante si fosse già arrivati alle dichiarazioni di voto, la conferenza dei capigruppo decide di soprassedere e di rimandare.

Quando la «riforma» sarà legge, a quelli attuali, dunque, il dg sommerà i poteri dell’amministratore delegato. Per il resto, le norme relative al vertice della tv pubblica contenute nel provvedimento (un cda di sette membri e non più di nove, e la conferma del «presidente di garanzia» votato dai due terzi della commissione di vigilanza, secondo una richiesta di Forza Italia) si applicheranno al prossimo consiglio d’amministrazione, quello attuale essendo stato nominato con la Gasparri e non con la nuova legge, come aveva promesso il presidente del consiglio mesi fa.

La riforma strombazzata da palazzo Chigi come una svolta nella gestione del servizio pubblico radiotelevisivo, finalmente sottratto alla morsa dei partiti (quelli degli altri, non certo quello di Matteo Renzi) arriva al rush finale senza nessuna enfasi (prima di arenarsi a un metro dal traguardo). Del resto una Gasparri ritoccata e rafforzata (il governo aumenta la sua presa sulla Rai) e oltretutto approvata in ritardo rispetto all’iniziale tabella di marcia del premier, non può certo essere spacciata come un gran successo. E infatti per tutto il giorno Renzi non gli dedica nemmeno un tweet.

Al senato, dove la seduta si apre con un ricordo di Mario Dondero, le votazioni filano piuttosto velocemente fino al pomeriggio, anche se i sì agli articoli del testo approvati sono sempre ben al di sotto della maggioranza assoluta (poco sopra o poco sotto i 135). Poi la seduta va avanti a singhiozzo, tra diverse sospensioni per mancanza del numero legale: la terza volta, prima dello otto di sera, il presiedente Piero Grasso è costretto a convocare la conferenza dei capigruppo, e si decide di rinunciare. Il voto finale potrebbe arrivare martedì sera, ma a stabilire il nuovo calendario sarà, martedì mattina, la capigruppo. Forza Italia propone di rinviare a dopo la pausa natalizia.
Renzi e Zanda, il capogruppo del Pd a palazzo Madama, «perdono colpi e di giovedì pomeriggio non riescono a trattenere in aula la propria maggioranza, evidentemente già in modalità natalizia, per fargli votare una legge tanto importante per il presidente del consiglio», infierisce il 5 Stelle Alberto Airola. E Roberto Fico dà man forte: «Ecco come si sprecano i soldi pubblici. Il weekend è il weekend. Che vergogna!». «Tele-Renzi parte male, oscurata dalle defezioni del Pd», sottolineano pure i leghisti. Le opposizioni, che appunto chiedevano di verificare se l’aula fosse in numero legale, si assegnano un punto alimentando il nervosismo della maggioranza. Parte la caccia al colpevole del flop (in realtà sono molti, date le assenze) e si punta l’indice contro i centristi. Ma nella maggioranza c’è anche chi lamenta lo scarso entusiasmo dei verdiniani rispetto alla riforma, proprio come se il gruppo dell’amico Denis facesse ufficialmente parte della maggioranza stessa.

Tutto rinviato, dunque. Comprese le nomine per reti e testate che dovrebbero arrivare dopo che Campo Dall’Orto avrà ottenuto i nuovi poteri. Tra questi – in base a un emendamento approvato alla camera tra le proteste dell’opposizione – anche quello di assumere, nominare, promuovere e stabilire la collocazione dei giornalisti, su proposta dei direttori di testata.