Nativo americano di ascendenza yaqui, il 67enne Fernando Eros Caro è stato prigioniero nel braccio della morte di San Quentin per 35 anni e ha avuto segnate sul calendario ben tre date di esecuzione prima che il suo corpo cedesse al peso inumano cui era da troppo tempo sottoposto. La notizia è arrivata il 28 gennaio, tanto improvvisa quanto inattesa: lo hanno trovato senza vita nella sua cella. Al telefono il medico del carcere ha sostenuto il fatto che Fernando comunque non presentasse patologie che ne lasciassero prevedere la morte. Dall’autopsia risulterebbe un infarto, ma la stranezza è che questo è il secondo decesso nel giro di pochi giorni a San Quentin.

SENZA ENTRARE NEL MERITO della sua innocenza o colpevolezza, la cosa certa è che il suo caso giudiziario è la fotocopia di innumerevoli altri casi segnati da razzismo e pregiudizio, in un paese dove la giustizia è direttamente proporzionata al conto in banca e al colore della pelle.

In una delle sue lettere, Fernando infatti scriveva: «La mentalità dei giurati americani sarà sempre un’incognita in un Paese che permette l’incremento dei senzatetto, l’abbandono nelle strade dei malati di mente, che sottrae il denaro all’educazione scolastica per investirlo nel prolungamento delle guerre. In un Paese che fu creato sterminando la popolazione che già vi risiedeva, come si fa a credere che una giuria sia infallibile?».

foto Fernando Eros Caro a San Quentin - 1996
Fernando Eros Caro a San Quentin – 1996

HO CONOSCIUTO FERNANDO nel 1992, anno in cui si celebrava il cinquecentenario della cosiddetta «scoperta dell’America». Gli scrissi per solidarietà e per dissociarmi da quei festeggiamenti, chiamati Colombiadi, che in realtà segnavano l’inizio del più grande genocidio della storia umana. Lui mi rispose e da allora siamo diventati fratelli adottivi.

Diverse volte sono entrato nel braccio della morte di San Quentin per incontrarlo di persona. Durante tutti questi anni Fernando è diventato un pittore autodidatta e oggi i suoi dipinti sono in giro per il mondo a testimoniare contro la barbarie della pena di morte. Inizialmente ritraeva soggetti drammatici, coerenti con la sua condizione di condannato. Poi ha iniziato a dipingere i volti del suo popolo, gli animali e la natura che abitava nei suoi ricordi: «È già brutto vivere in un incubo – mi diceva – e non mi aiuta vederlo appeso anche alle pareti della mia cella».

FERNANDO da molti anni era in corrispondenza epistolare con tanti pen friends sparsi per il mondo e persino con alunni e studenti di molte scuole italiane. Ha scritto diversi libri, sia sulla sua condizione di condannato che sui retaggi e la cultura del suo popolo, scrivendo articoli per diverse associazioni abolizioniste, tra cui il Comitato Paul Rougeau, con cui aveva una relazione assidua.

Nonostante fosse sottoposto a dosi quotidiane di brutalità, Fernando riusciva a mantenere integra la propria umanità e spesso ti sorprendeva col suo sorriso e la sua ironia, persino quando denunciava le cose che non andavano: «Come sempre la colazione è disgustosa. Ne mangio un po’, il resto finisce nel water. Sono contento che i nostri gabinetti non abbiano la facoltà di vomitare».

[do action=”citazione”]742, i condannati presenti nel braccio della morte di San Quentin, il più affollato degli Usa. Il 42% sono neri, ma i nativi percentualmente subiscono più pene capitali[/do]

DURANTE UNA DELLE VISITE a San Quentin, nel 2007, di nascosto dalle guardie carcerarie Fernando mi consegnò un manufatto realizzato da lui: era un medaglione di pelle e perline colorate che ritraeva un’aquila stilizzata. Mi disse: «Qui dentro c’è il mio spirito. Lo spirito è invisibile e i secondini non lo vedranno uscire». È stato un semplice scambio di doni, ma sembrava che stessimo organizzando chissà quale evasione, viste le rigidissime regole carcerarie di San Quentin, dove non può entrare o uscire nemmeno uno spillo. Poi Fernando aggiunse: «Ogni volta che farai un’iniziativa per me, indossa il medaglione, così io sarò lì con te, attraverso il vento dello spirito».

02 ULTIMA STORIE Marco cinque Cha Cha e Fernando Caro

È QUEL CHE HO FATTO e che adesso più che mai continuerò a fare. L’ultima volta è stata proprio pochi giorni fa, durante la Giornata della Memoria, in una scuola di Campoleone (Rm), dove i bambini entusiasti toccavano quasi come fosse una reliquia il medaglione di Fernando. Ora dovrò dirgli che il loro nuovo amico non è più in prigione. Che non potremo ascoltare più la sua voce. Che il suo sorriso coraggioso non risplende più dall’ombra di una cella. Che le sue mani hanno smesso di dipingere e di scrivere storie. Che non potrà più rispondere alle mie e alle loro lettere. L’unica consolazione sarà che non dovrà subire il disgustoso protocollo della camera della morte: il lettino a forma di croce, le cinghie, gli aghi, il siero letale, i visi del pubblico che assiste dietro il vetro. Questo almeno gli sarà risparmiato.

DOPO L’ELEZIONE di Donald Trump e il recente voto del referendum popolare che ha deciso di confermare e velocizzare le sentenze capitali in California, restava poco da sperare e Fernando era stanco e terrorizzato da tutto questo. In un articolo pubblicato sul Bollettino mensile del Comitato Paul Rougeau, Fernando affermava: «Adesso le persone hanno votato e la pena di morte resta in vigore. Sono stati scelti, come punizione, la sofferenza e il dolore che si ritiene un condannato provi durante l’esecuzione! Le esecuzioni fallite e tormentose che hanno già avuto luogo nel nostro Paese lo dimostrano. Aver demonizzato i criminali convince le persone che l’omicidio di stato è una cosa giusta! Il termine giusto per definire il modo in cui le scelte delle masse vengono fatte oscillare da una parte piuttosto che dall’altra è “manipolazione”. Dopo tutto le masse sono ingenue e credono a ciò che viene detto loro. Le loro priorità nella vita non sono fare indagini approfondite e confrontare le cose vere. Preferiscono adagiarsi sulle argomentazioni dello stato, che dice che la legge è la legge, e che tanto saranno altri a eseguire le esecuzioni! Compassione? Ammesso che esista, nessuno vuole dimostrare compassione nei nostri confronti. Poi c’è anche la tattica del “e se…”. E se la pena di morte fosse abolita, cosa accadrebbe dopo? Il sospetto nasce semplicemente dall’ignoranza delle persone! Quindi la manipolazione si limiterà a far credere falsamente che questi uomini un giorno verranno liberati. Fino a quando verrà utilizzata la tattica di instillare la paura nelle masse, si otterranno le risposte volute».

FORSE NON SI SAPRÀ MAI il modo in cui Fernando se n’è andato, ma di certo adesso lo Stato non potrà più eseguire la sentenza. Tra le tante parole che Fernando ci lascia e che resteranno per sempre scolpite nella nostra memoria, vorrei ricordarne alcune, poche ed essenziali, ma capaci di denunciare, forse più di un intero trattato, l’inumanità della pena di morte: «Si può vivere, si può morire, ma nessuno dovrebbe vivere aspettando di morire».

02 ULTIMA STORIE carcere san quentin

Scritti per non smettere di sognare

In Italia sono stati pubblicati diversi libri di Fernando Eros Caro: Prigionieri dell’uomo bianco (KAOS edizioni, 1995), Saai Maso (Edizioni Wicasa Onlus, 2009), ristampato da poco con le Edizioni Pellicano in versione ampliata e aggiornata.

Sempre per le Edizioni Pellicano l’epistolario Non smettete mai di sognare, pubblicato nel 2015.

Suoi scritti sono apparsi nei volumi Pena di morte? No grazie! (Multimage Edizioni, 2003), Giustizia da morire (Multimedia Edizioni, 2000) e Poeti da morire (Giulio Perrone Editore, 2007).

Nel 2006 è stato protagonista del documentario Il miglio verde – lettere dal braccio della morte, trasmesso dall’emittente nazionale La7.

Divenuto un attivista per i diritti umani, ha testimoniato al mondo la barbarie della pena capitale. Pittore autodidatta, le sue opere sono state esposte in diversi paesi, soprattutto negli Stati uniti e in Europa.