La riscrittura dei fatti storici secondo il punto di vista degli esclusi, di chi non determina la storia ma la subisce, è uno degli elementi ricorrenti nella narrativa postcoloniale: la messa in discussione delle versioni ufficiali si realizza tanto dando voce a coloro che se la sono vista reiteratamente negare, quanto facendo luce sui silenzi e le omissioni della storiografia di regime. Spesso le due prospettive si sovrappongono e, a volte, scavando in profondità per rivelare episodi taciuti dai libri di testo, si arriva a toccare il fondo di quell’inimmaginabile che, dal Kurtz di Conrad in poi, continua a ossessionare le fantasie occidentali.

Proprio questo accade nell’ultimo romanzo di Richard Flanagan, La strada stretta verso il profondo Nord (traduzione di Elena Malanga, Bompiani, pp. 512, euro 20,00), in cui si racconta un episodio di rara efferatezza che ha avuto luogo nella seconda guerra mondiale, e costò la vita a 14000 prigionieri alleati, 3000 circa dei quali australiani: nella giungla più impenetrabile, senza alcuna strumentazione adeguata e con una manovalanza affamata e allo stremo delle forze, venne costruita la cosidetta «ferrovia della morte», che andava da Bangkok a Rangoon, e fu voluta dai giapponesi «per interrompere i rifornimenti al nemico cinese lungo questa linea cruciale e invadere l’India dalla Birmania».

Una storia, questa, taciuta in Australia, dove le brutalità subite dai prigionieri di guerra sono state obliterate per favorire la riconciliazione – e la ripresa dei rapporti economici – con il Giappone, mentre il resto del mondo ne ha conosciuto una versione alquanto edulcorata, attraverso il romanzo di Pierre Boulle, Il ponte sul fiume Kwai e, soprattutto, attraverso il film che ne trasse David Lean nel 1957.

Da tempo Flanagan si era proposto di ridare voce alle migliaia di australiani la cui vita in alcuni casi finì in altri venne sconvolta sui binari della morte: già nel suo capolavoro, La vita sommersa di Gould, le violente scene di quotidianità nella colonia penale di Van Diemen’s Land all’inizio dell’Ottocento adombravano la riduzione in schiavitù e l’estrema umiliazione dei prigionieri australiani nei campi giapponesi.

Tuttavia, mentre in Gould l’audace tour de force postmoderno tra realismo magico e metanarrativa, in una costruzione barocca e in un linguaggio lussureggiante, contribuivano a una narrazione dal piglio decisamente mitico, in La strada stretta vero il profondo nord, scomparsi gli elementi fantastici, un realismo così brutale da assumere connotazioni allucinatorie (purtroppo non sempre rese efficacemente nella traduzione italiana) concorre a reinserire nella mitologia nazionale e nell’immaginario collettivo un episodio dimenticato.

Ci sono voluti dodici anni per arrivare a questo risultato: anni durante i quali Flanagan, pur continuando a indagare sui lati oscuri del passato (l’età vittoriana in Solo per amore) e del presente (il post 11/9 in La donna sbagliata), avvertiva sempre più urgente la necessità di raccontare questa storia che, come ha più volte affermato, continuava a sfuggirgli e da cui, al tempo stesso, non riusciva a fuggire. «Se non avessi scritto questo libro, non credo avrei potuto scriverne altri», ha detto.

Quali blocchi emotivi abbia dovuto superare l’autore australiano e quanto difficoltosa sia stata per lui la scrittura di questo romanzo diventa evidente quando si sa che il «prigioniero 335», cui il romanzo è dedicato, altri non era che suo padre, Archie Flanagan, sopravvissuto al campo di prigionia e deceduto mentre il figlio stava completando la stesura di questo lavoro.

Non per caso, Flanagan ha preso a prestito il titolo del romanzo da un classico giapponese del XVII secolo, Oku no Hosomichi, un haibun (misto di prosa e haiku) in cui il poeta Basho racconta di un periglioso viaggio da lui intrapreso a piedi da Tokyo (allora Edo) verso nord, per aspri sentieri montagnosi. «Ogni giorno è un viaggio, e il viaggio stesso è casa»: nel verso più famoso di Basho è racchiuso il senso del romanzo.

Non solo, banalmente, la vita è un viaggio, ma nel viaggio, nell’andare, per quanto faticoso, irto di ostacoli, insensato, occorre costruire la propria casa, poiché «casa» è essa stessa un’illusione. «Il mondo, semplicemente, è», tutto qui, come ripete il protagonista, l’ufficiale medico Dorrigo Evans. E anche l’orrore, nella vita, «semplicemente è. E fino a che regna, è come se al mondo non vi fosse nient’altro», scrive Dorrigo, eroe di guerra, ormai anziano e carico di gloria.

Simile al Marlow conradiano, Dorrigo scende al fondo di un abisso dal quale non sarà mai in grado di riemergere completamente. Attraverso continui cambi di tempo e di spazio, che conferiscono ritmo e movimento al romanzo, anche nella parte centrale, tutta rinchiusa nell’universo concentrazionario del campo di prigionia, Flanagan segue Dorrigo dalla misera infanzia in Tasmania, passando attraverso l’inferno birmano, fino a una vecchiaia in cui fama e onori non valgono a colmare il vuoto e l’insoddisfazione che lo attanagliano.

Eroe, suo malgrado, in una guerra, dove, adoperandosi per salvare se stesso e i compagni dalle epidemie, dalla fame, dalle percosse e dalle violenze giapponesi, si guadagna l’appellativo di «Grande Uomo», Dorrigo sopravvive all’incredibile violenza di quanto subisce solo aggrappandosi al ricordo di una breve ma intensa storia d’amore che, pure in tempo di pace, continuerà a ossessionarlo.

Paragonato al Dottor Zivago anche in virtù di questa passione che lo sostiene – e lo travolge – fino all’ultimo respiro, Dorrigo in realtà è del tutto privo dell’aura romantica che caratterizza l’eroe di Pasternak. Il dottor Evans, «uomo debole cui altri mille uomini che lo consideravano forte davano la forma delle loro aspettative», è conscio di essere soltanto un individuo cui «era … riuscito meglio vivere che non morire»: del resto, non è la morte a impedirgli, come a Zivago, l’estremo incontro con l’amata, ma una scelta forse codarda, o più probabilmente dettata dal nichilismo che ormai, nella maturità, governa le sue azioni.

Neppure gli altri suoi commilitoni sopravvissuti alla prigionia hanno vite soddisfacenti una volta rimpatriati: con un abile gioco di montaggio e cambi di prospettiva, Flanagan segue le sorti di alcuni di loro, e anche dei loro aguzzini, delineando magistralmente sia il tortuoso percorso che porta i criminali di guerra, in un perverso processo di negazione e auto-assoluzione, a trasformarsi in anziani gentili e innocui, sia le cicatrici profonde e indelebili che l’esperienza dei campi lascia nei sopravvissuti. Il risultato è, da un lato, una sorta di affresco antimilitarista dai colori e dai tratti degni di Hieronymus Bosch; dall’altro, un sofferto omaggio a tutti coloro che in guerra hanno perso la vita, non solo qella meramente corporea, ma anche, e soprattutto, la vita della psiche. Quello di Flanagan, dunque, non è affatto l’ennesimo romanzo scritto «per non dimenticare»: mentre Dorrigo Evans è convinto che «la memoria è come la giustizia… un’altra idea sbagliata che ci fa sentire a posto», il suo autore rivista una pagina dimenticata della storia australiana privandola di tutti i cliché (e i buonismi) che smussano gli angoli della letteratura di testimonianza.

Scritto anche (o soprattutto?) per esorcizzare quella «confusione … fatta di amore e di paura» che i figli dei sopravvissuti si portano dietro «per il resto della vita», La stretta strada verso il profondo Nord è un libro duro, a tratti sgradevole, certo imperfetto, ma assolutamente necessario. Vi si afferma all’inizio che «Un buon libro lascia sempre la voglia di rileggerlo, mentre un grande libro obbliga a rileggere la propria anima»: forse non molti avranno voglia di tornare una secondo volta su questo romanzo, ma di certo, dopo averlo letto, tutti ne porteranno tracce destinate a rimanere a lungo nella loro coscienza.