Ormai per tutti sono Giulietta e Romeo. Lei, 29 anni, piccolina, se ne sta nella sua tuta color fucsia incredula, forse, di tanta attenzione attorno a sé. Lui, cinque anni più grande, sembra un gigante mentre se ne sta seduto accanto alla sua donna sforzandosi di far capire a tutti quanto possa essere assurda la loro storia. Che è la storia di una fuga d’amore da un paese, la Tunisia, in cui la famiglia di lei ha cercato in tutti i modi di impedire che si sposassero, al punto che i fratelli della ragazza sono arrivati ad accoltellarla per punirla dei suoi sentimenti.

A guardarli non sembrano proprio due di quei pregiudicati di cui secondo Angelino Alfano, il ministro degli Interni deciso a difendere la Bossi-Fini, sono pieni i Cie. Giulietta e Romeo, che in realtà si chiamano Alia e Alì, si amano da dieci anni e quando erano in Tunisia avevano anche un lavoro: lui meccanico, lei sarta. Se sono scappati è solo per amore, perché il loro sogno era quello di mettere su famiglia, magari proprio in Italia. Invece Alì e Alia dal 30 novembre scorso sono rinchiusi nel Cie di Ponte Galeria, alla periferia di Roma, e il loro sogno per adesso è rinviato, se non addirittura svanito sotto la minaccia di un rimpatrio. Che sarebbe drammatico per entrambi. «La prima a rischiare è lei», dice Alì stringendo a sé Alia. «La sua famiglia la ucciderebbe e subito dopo toccherebbe a me». Hanno anche provato a chiedere lo status di rifugiati ma la domanda è stata respinta, mente ieri il giudice di pace ha prorogato di un altro mese la loro permanenza nel Cie romano.

Due vite sospese. Queste sono le esistenze di Alì e Alia. Sospese come tutte quelle di quanti hanno la sventura di finire in un Centro di identificazione ed espulsione in attesa di essere rispediti a casa come pacchi. Attesa che può durare anche un anno e mezzo. Un’infinità. «Questi sono non-luoghi senza tempo, dove per un immigrato non è prevista la minima attività se non quella prettamente fisiologica di mangiare, andare in bagno e dormire», dice il senatore Luigi Manconi varcando per l’ennesima volta in pochi giorni il grande cancello di ferro del centro accompagnato da Valentina Brinis, ricercatrice di «A buon diritto» e da Vitaliana Curigliano, funzionaria della commissione diritti umani del Senato presieduta dallo stesso Manconi. Una settimana fa alcuni immigrati si sono cuciti le labbra per protestare contro una detenzione di cui proprio non riescono a capire le ragioni. Una forma estrema di lotta rientrata solo ieri mattina, quando anche l’ultimo dei ragazzi ha accettato di farsi liberare le labbra. «Ma la nostra protesta non è finita», assicurano.

Quello che colpisce di più entrando a Ponte Galeria è il numero infinito di sbarre che ci sono ovunque, insieme al rumore secco delle chiavi che aprono e chiudono porte di ferro a ogni passaggio. Come in un carcere. L’altezza delle sbarre qui segna come un calendario il continuo inasprimento delle norme sull’immigrazione. Quando il centro venne aperto il tempo massimo di detenzione per un immigrato erano i 30 giorni previsti dalla legge Turco-Napolitano e le sbarre erano alte circa tre metri. Poi, nel 2005, i tempi sono stati raddoppiati e anche le sbarre sono diventate più alte. Infine nel 2010, quando la detenzione venne allungata fino a 18 mesi dal leghista Roberto Maroni, è stato aggiunto l’ultimo pezzo. Il risultato è un lungo rincorrersi di sbarre e cemento a dividere gli oltre venti moduli che compongono le sezioni maschile e femminile del più grande Cie d’Europa. Ogni modulo otto posti letto e un cortiletto per prendere l’aria. Punto e basta, neanche un’aiuola per provare a rendere il tutto un po’ più umano per persone la cui unica colpa, in fondo, è quella di essere state fermate senza un permesso di soggiorno.

In uno dei cortili interni una quindicina di tunisini e marocchini ha deciso di proseguire la protesta dormendo all’aperto. Sull’asfalto bagnato hanno steso i materassini verdi in gommapiuma e adesso se ne stanno distesi lì sopra avvolti in coperte e sacchi neri dell’immondizia. Alcuni di loro hanno partecipato alla protesta delle labbra cucite, tutti da sette giorni sono in sciopero della fame e si alimentano solo con acqua e zucchero. Manconi si ferma a parlare con loro e si raccomanda perché vengano seguiti da un medico. Arrivano tutti da Lampedusa, e anche loro non riescono a capire perché una legge li costringa a restare tanto tempo rinchiusi. «Non è vero che abbiamo procedenti, come dicono, Chiediamo solo di essere liberati», spiegano. A un certo punto arriva anche Kaled Chaouki, il deputato del Pd he ha vissuto per alcuni giorni nel centro di Lampedusa. Viene accolto con un applauso: «E’ un fratello», commentano gli immigrati. Si capisce che seguono le vicende italiane, attenti a tutto ciò che potrebbe migliorare la loro condizione. Parlano di Napolitano, dei suoi continui appelli al parlamento per un indulto. «Riguarderà anche noi?» chiedono. A Manconi spetta l’ingrato compito di spiegare che no, non sarà così. Ma c’è spazio anche per qualche speranza.«Ho parlato con il viceministro degli Interni – rassicura il sentore – e mi ha assicurato che il tempo di permanenza nei Cie sarà molto accorciato».

Provateci voi a sospendere la vostra vita per 18 mesi senza avere la minima idea di cosa potrà accadervi. O meglio, lo sapete e non vi piace affatto. Come succede a Jovanic Dalibord, che 22 anni fa è nato ad Aversa dove ancora vivono la madre e i fratelli e adesso – dopo aver saldato il suo debito con la giustizia scontando due anni nel carcere di Poggioreale – rischia di essere mandato in Serbia, Paese che non ha mai visto e di cui non parla nemmeno la lingua. «Ma come è possibile? Lì non mi conosce nessuno», chiede guardandoti con gli occhi di chi si sente prigioniero di un incubo.

Come è possibile se lo chiede anche Yassin, 19 anni, libico, che se va in giro per il Cie rigirando tra le mani un cappio. «A Capodanno mi impicco, perché io in Libia non ci torno», ripete alla psicologa del centro che non lo perde di vista un attimo. Yassin sa tutto di Nelson Mandela. Sa che è stato in carcere 27 anni e sa anche perché. «Se ce l’ha fatta lui devi farcela anche tu, devi farti forza» gli dice Manconi, che alla fine riesce a farsi consegnare il cappio insieme alla promessa di rivedersi il primo gennaio.

La maggior parte degli irregolari presenti nei Cie italiani non ha precedenti penali e non ci sarebbe nessun motivo per lasciarli mesi e mesi chiusi in queste enormi gabbie.

Il pacchetto giustizia messo a punto dal ministro Cancellieri prevede la possibilità di procedere all’identificazione di chi ha commesso un reato direttamente in carcere, e questo servirà ad alleggerire un po’ la pressione nei centri. Per tutti gli altri da tempo Manconi misure alternative ai Cie, come l’obbligo di firma in commissariato. Provvedimenti che, se applicati, sarebbero sufficienti a chiudere un’esperienza che fino a oggi si è rivelata fallimentare, con appea il 40% degli irregolari identificati. Soluzioni come quelle che gli immigrati di Ponte Galeria adesso hanno deciso di chiedere direttamente al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano con una lettera. «E quando l’avranno scritta – promette Manconi – la porterò personalmente al capo dello Stato».