«Scambio prigionieri riuscito e Daesh sconfitto». Il presidente afghano Ashraf Ghani gongola, ma chissà per quanto. A Jalalabad, capoluogo della provincia orientale di Nangarhar, celebra la sconfitta della Provincia del Khorasan, la branca locale dello Stato islamico; a Kabul incassa lo scambio prigionieri.

A lungo detenuti in un carcere nella base di Bagram, ieri tre autorevoli esponenti dei Talebani sono stati liberati e hanno raggiunto Doha, la capitale del Qatar in cui ha sede l’ufficio politico dei Talebani e dove per mesi una loro delegazione ha trattato un accordo di pace con Zalmay Khalilzad, l’inviato di Donald Trump.

In cambio dei tre, nella provincia orientale di Zabul sono stati liberati due docenti sequestrati dalla rete Haqqani a Kabul nell’agosto 2016, lo statunitense Kevin King, 63 anni, e l’australiano Temothy Weeks, 50, oltre a dieci militari afghani.

Lo scambio ha funzionato e non era ovvio. Il presidente Ghani lo aveva annunciato giorni fa in diretta televisiva, intestandosi la paternità di una scelta avallata, poi capitalizzata. «Un boccone amaro» per favorire la pace, il dialogo diretto con i Talebani e un cessate il fuoco. «E in cambio del sostegno di Washington sull’esito delle elezioni», suggerisce un navigato frequentatore dei salotti diplomatici.

Dopo circa 50 giorni dalle presidenziali del 28 settembre, i risultati sono contesi, denunciati e boicottati prima di essere noti, i voti tolti o aggiunti. Abdullah Abdullah, primo ministro nel governo di unità nazionale ma alle urne antagonista di Ghani, contesta insieme ad altri candidati il riconteggio e le scelte della Commissione elettorale, con prove di forza e tessitura diplomatica internazionale.

Ghani mostra fiducia. «Preparate piani per i prossimi cinque anni», c’è chi giura di averlo sentito dire al suo staff. L’endorsement allo scambio di prigionieri potrebbe valergli un secondo mandato. «Senza ballottaggio».

Voci senza conferme. Come quelle corse tra giovedì e venerdì: lo scambio era in corso, ma è saltato. Accuse reciproche tra i Talebani, Kabul e Washington, ma era un problema tecnico. Sul fronte politico tutti pensano di incassare.

I Talebani riportano a casa tre uomini di apparato e di alto valore simbolico e mostrano il volto conciliante. Abbiamo liberato gli occidentali per «favorire la fiducia sul processo di pace», dice Suhail Shaheen, portavoce della delegazione talebana a Doha.

Per il Pakistan, attore fondamentale nel conflitto e nel negoziato, incassa il premier Imran Khan. A luglio aveva promesso a Trump di portargli presto buone notizie. Ieri ha sottolineato il ruolo di Islamabad: sempre pronti a dare una mano.

Trump pensa di capitalizzare sul lungo-termine. I due docenti «sono nelle cure dell’esercito Usa, torneranno presto a casa», conferma il segretario di Stato Mike Pompeo. Lo statunitense liberato, Kevin King, rischia di diventare figurina elettorale nelle presidenziali del 2020.

Ma il comunicato di Pompeo, in cui loda Ghani, accoglie il gesto dei Talebani e si dice pronto al negoziato politico, lascia intendere che lo scambio ha un valore maggiore. Serve a ricucire in fretta lo strappo del 7 settembre, quando Trump ha interrotto a sorpresa il negoziato tra Talebani e Khalilzad, vicini alla firma dell’accordo.

Serviva una terapia d’urto, pura realpolitik: un accordo regionale con cui vengono liberati due docenti stranieri e dieci militari afghani, ma che archivia le proteste di chi contesta il rilascio da parte di Kabul dei tre membri della rete Haqqani, l’ala più oltranzista, responsabile di stragi efferate.

I tre sono Anas Haqqani, figlio del fondatore del network Jalaluddin e fratello dell’attuale leader Sirajuddin, che è anche il numero due della Rahbari shura, il gran consiglio dei Talebani. Poi Haji Malik Khan, fratello del fondatore Jaraluddin, catturato nel 2011. E Qari Abdul Rasheed Omari, comandante militare nell’Afghanistan del sud-est. Alle spalle 12 anni a Guantanamo, poi responsabile del settore attentati-suicidi. Tre jihadisti esperti e pericolosi.

La scelta di liberarli non va giù a molti. Per altri è difficile accettarla, ma va valutata sul lungo-termine: «Sarà legittima solo se produrrà risultati tangibili, se ridurrà davvero la violenza sui civili, con un cessate il fuoco, e aprirà al dialogo tra il governo e i Talebani», dichiara al manifesto Maryam Safi, direttrice della Organization for Policy Research and Development Studies (Drops), accreditato think tank di Kabul. Per ora Ghani non ha garanzie. Né sull’esito delle presidenziali né sui colloqui con i Talebani.